Il discorso sulle Università meridionali meriterebbe una riflessione particolare. Non ci si può lamentare del fatto che ad esse vengono sottratti soldi, con rischio di chiusura. Bisognerebbe domandarsi, piuttosto, che cosa si perderebbe se le Università meridionali, a parte le due o tre storiche, chiudessero i battenti.
Frutto di compromessi e di scippi fatti per ragioni municipalistiche e di mero orgoglio sull’onda del ’68, ci sembra che esse non hanno portato nulla di veramente nuovo alle regioni e ai territori su cui sono sorte, salvo un generale declassamento degli studi. Sta di fatto che le Università di Calabria, di Basilicata, di Lecce, di Foggia, di Campobasso non godono di grande credito. Perché negarlo?
L’Università di Basilicata nacque all’indomani del terremoto 1980, con l’illusione (presunta e ostentata) che essa sarebbe servita a risalire la china delle frane, dei dirupi e delle rovine verso un futuro di progresso e di sviluppo. Tutto questo, obiettivamente, non è accaduto. Anzi…
Già sul nascere, purtroppo, cominciò la lunga diatriba sulla sede. E fu una discussione del tutto inutile, perché già la decisione era stata presa. La sede era e doveva essere Potenza, non il Metapontino, non lo Scalo di Grassano… Ciò in omaggio alla dottrina di “Potenza città Regione”, e in ossequio al potere politico potentino, certamente molto più deciso e determinante di quello materano.
A questo, però, in un secondo momento, si dovette comunque dare il contentino, frazionando le facoltà e dividendo in due sedi l’Università. Ciò non poteva non avvenire con grave danno per la sua efficienza e per la sua economicità. Matera, infatti, aspetta ancora una sede.
Di certo le spese si moltiplicarono. Queste, ormai, sono più che ragguardevoli, tanto che, se non intervenisse la Regione – lo dicono tutti – l’Università chiuderebbe.
E’ vero che, nata all’insegna della improvvisazione, della urgenza e delle spartizioni politiche (questo a te questo a me, tanto a te tanto a me) l’Unibas è andata avanti sempre tra lamenti e annuali minacce di chiusura, con regolari appelli alla Regione.
Ma perché, allora, prima ancora di chiedere soldi, non ci si domanda quale incidenza e importanza essa ha avuto nella storia passata e recente della regione, che, purtroppo, ha primati terribili nella disoccupazione, nell’emigrazione e nel dissesto ambientale?
La questione merita dei quesiti.
- Innanzitutto: quanto può ritenersi libera una Università, la cui sopravvivenza deriva tutta dal potere politico e dai copiosi finanziamenti che questo elargisce e potrebbe non elargire? Direbbe l’Alfieri: può l’uomo colto essere libero, se dipende dal Principe?
- Quale livello di scientificità e di ricerca l’Unibas ha finora espresso?
- Quale contributo di idee, in particolari momenti, l’Unibas ha dato, per esempio nella questione petrolio, nella questione ambiente, nella questione spopolamento delle zone interne, nella questione trasporti, nella questione sanità, ecc?
- Sia detto con sommo riguardo: quanto ha inciso la mano politica nella selezione e nella qualità del personale che vi opera?
- E’ vero o non è vero, che al di là di certe solenni proclamazioni, l’Unibas, non meno che Musei, Soprintendenze, gli Archivi, ecc non produce reddito ma ne assorbe tanto, troppo?
- E’ vero o non è vero che la cultura, al di là di certe solenni proclamazioni, non produce reddito in sé, ma, al massimo, riesce ad essere concime per il territorio?
- L’Unibas in che cosa si è dimostrata concime di crescita per la regione?
- E se nulla ha dato in termini di sviluppo e produttività e lavoro, ha senso una Università che laurei dottori che poi emigreranno?
- E se i soldi dati all’Unibas si utilizzassero in altra direzione?
- Infine: se ne può discutere in termini franchi e sinceri, senza condizionamenti e preoccupazioni di alcun genere?

Nel 2012 ho avuto occasione di fare una ricerca sul finanziamento che le università italiane hanno ricevuto nel corso del periodo compreso tra il 2006 ed il 2010 da parte di “enti locali e altri enti”; si tratta di un quinquennio nel quale si è raggiunto il picco massimo della curva del finanziamento pubblico al sistema universitario, ma nel quale si inizia a risentire delle conseguenze della crisi economica internazionale per la quale si individua comunemente il 2008 come anno di esordio.
I risultati principali di questa ricerca dicono che:
– esiste una tendenza piuttosto stabile dei cosiddetti “altri enti” – in particolare degli enti locali – a condividere i costi sostenuti dal sistema universitario; questa tendenza risulta piuttosto stabile nel quinquennio considerato, sebbene risenta anch’essa della crisi finanziaria e si attesta su una media del 6,3% del totale delle entrate delle università;
– la tendenza appare più accentuata se consideriamo le università medie e piccole o, meglio, se escludiamo dal calcolo i cosiddetti “grandi atenei”; ciò appare ragionevole, considerando che le grandi università conoscono altre forme di condivisione dei costi che marginalizzano la necessità di intervento da parte degli enti locali;
– in alcune regioni italiane si può notare un evidente fenomeno di omogeneo finanziamento degli atenei da parte degli enti locali, il che induce a pensare a politiche territoriali di finanziamento e dunque strategie concordate tra enti e atenei.
Una questione fondamentale riguarda la definizione di cosa si intenda per “regioni” e “territori”; nella mia ricerca ho utilizzato il termine “territori” e non “regioni” per evitare la sovrapposizione concettuale tra “aree funzionali” di cui parla l’OCSE (functional areas o functional economic regions), e Regioni costituzionalmente definite, in Italia così come in altre nazioni; tra questi due concetti esiste naturalmente una sovrapposizione, ma l’uno non esaurisce l’altro.
Il vero problema credo sia quello che attualmente si considerano gli Atenei separatamente, ed ugualmente le nostre Regioni; una visione costruttiva del problema si potrà raggingere solo se gli Atenei di un territorio più vasto di quello delimitato dai confini regionali riusciranno ad operare in sinergia tra di loro ed in questo modo dialogare con le Regioni di riferimento ed il Ministero.