lunedì, 9 Settembre , 2024
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TURISMO IN CRISI?

La “MARCIA PER LA CULTURA E IL LAVORO” – il Movimento Civico al quale aderiscono rappresentanze del mondo sindacale, imprenditoriale, professionale, associativo, personalità della cultura e liberi cittadini, sta sostenendo le Associazioni di categoria del comparto turistico, e da ultimo ha partecipato alla Manifestazione di fine luglio, per denunciare l’incapacità di gestire le politiche in materia di turismo in una città che ha raggiunto obiettivi importanti negli anni passati e la sottovalutazione della richiesta della “Marcia” – sin dal 2018 – di dare consistenza e forza al ruolo di “Matera-città d’arte” (attraverso il potenziamento delle infrastrutture culturali, della ricerca ed innovazione, dell’accessibilità e del “governo” dell’accoglienza turistica), il malinconico declino nel protagonismo della città dopo il 2019 – cui è seguito al lockdown sanitario quello politico-culturale – riducendola  a città rattrappita nella sua antica bellezza, acquiescente, chiusa in sé stessa, negli egoismi di parte, di potere e di categoria, incapace di costruire e proporre “futuro collettivo e condiviso”.

Quello della Marcia é un altro importante segnale di reazione ai gravi segnali della crisi turistica, anche perchè introduce nella routine rivendicativa il discrimine della partecipazione attiva (cittadina e non solo), riducendo il rischio di decisioni verticistiche o subornate ai poteri ‘particolaristici’

Rinviando alla lettura di quanto fin qui pubblicato in proposito – anche su Giornalemio.it – qui, mi sia consentito andare oltre la finalità ‘vertenziale’ della ‘Marcia’ e aggiungere una riflessione sul tema che ci porti ‘alla radice del problema’; un contributo in più per conseguire la convinta partecipazione degli abitanti di una città turistica e d’arte!

Il turismo sta diventando – è giudizio diffuso – la sola industria locale per molte città – la nostra compresa, che così si riducono a “città operaie”: c’é una soglia precisa che separa una città turistica in senso stretto da una città che vive anche di turismo: “finché l’afflusso di visitatori non supera questa soglia, turisti usufruiscono di servizi e prestazioni pensati per i residenti. Oltre questa soglia, invece, i residenti sono costretti a usufruire dei servizi pensati per i turisti”. Fino a qualche anno fa era impossibile mangiare male a Matera: ora perché un ristoratore dovrebbe dannarsi per cucinare con cura per un cliente che non tornerà più, o che pensa a una cucina che per noi è una bestemmia?

Nei termini dell’economia mainstream: il mercato per la domanda dei residenti non coincide con il mercato per la domanda dei turisti, ma i due mercati si sovrappongono nel tempo e nello spazio ed entrano in conflitto o divergono: se il residente ha bisogno di riparare le scarpe, mentre il turista ha fame di uno snack, e se i turisti spendono più dei residenti, il risultato è che scompare la bottega artigiana del ciabattino e si moltiplicano i fast-food.

Non basta. Nella città turistica non è solo la tipologia dei servizi a mutare drasticamente, ma viene stravolta la stessa funzione degli edifici. Il turismo stravolge non solo il paesaggio fisico, ma anche quello umano: proprio perché il nucleo della città turistica “tende a essere dominato dal commercio al dettaglio e da locali di svago piuttosto che da uffici, i quartieri residenziali della classe lavoratrice situati in centro diventano una rarità”. Così il centro città diventa appannaggio di visitatori agiati, conducendo a un’esclusione della classe lavoratrice dal centro. Non solo la classe lavoratrice, anche il ceto medio indigeno viene espulso: l’ostilità verso AirBnb cresce anche perché la proliferazione di stabilimenti e impianti turistici va di pari passo con la scomparsa di attività produttive, artigianali, ma non solo. Spesso sono effetto l’uno dell’altro e si rafforzano a vicenda.

Si ritiene che si sviluppi turismo per compensare la deindustrializzazione. Per Matera, il caso è un po’ diverso: eravamo già in presenza di ‘sviluppo da servizi e sovraccarico di impiegati’, ormai in strutturale contrazione da austerity; ma, identico – qui e altrove – è il tentativo, in linea con l’idea postmoderna di turismo – di trasformare il passato in industria: “mentre le prospettive per il futuro sembrano ridursi, il passato cresce costantemente”.

In realtà, la funzione compensatoria va oltre l’ambito strettamente industriale: in una città il turismo acquista tanta più importanza quanto più declina ogni attività industriale o meno che produceva la sua tradizionale ricchezza. Il turismo è un’industria in senso proprio, cioè con un suo ramificato “apparato produttivo”, come è stato definito.

Se il turismo è un’industria, i turisti sono il suo mercato: e le varie città turistiche entrano in competizione per conquistarsi una fetta di tale mercato: “I tre elementi del turismo urbano – il turista, l’industria turistica e le città – interagiscono producendo un sistema ecologico complesso”.

Con l’ingresso delle corporation multinazionali, l’industria turistica è nel bel mezzo di una rivoluzione in cui immagini, informazioni e denaro sono trasmessi a velocità della luce. L’oggetto della rincorsa, il turista, è un bersaglio mobile. Per richiamare i turisti, le città devono rimodellarsi coscientemente per creare un paesaggio fisico in cui i turisti desiderino risiedere. Un arsenale di dispositivi consolidati permette di attirare gli appassionati, di trattenerli, di organizzare l’economia del loro tempo, di spaesarli nella familiarità e nel comfort.

Città turistiche che, per attrarre i turisti e per esaltare propria irripetibile unicità, si ridisegnano, si ripensano, si riprogettano tutte uguali tra loro, nella lotta per sottrarsi turisti.

Non bisogna più pensare alla singola città turistica, quanto alla rete, al sistema delle città turistiche.  E il cambiamento più visibile nel tessuto urbano é provocato da una caratteristica specifica del turismo, quella dell’autenticità: l’autenticità è visibile al turista solo se “marcata”, se “messa in scena”, così da dare alla città turistica la sua inconfondibile teatralità: Roma deve mettere in scena la romanità, Parigi corrispondere all’idea che un americano si fa di Parigi; Matera offre il suo presepe cavernicolo e la ‘cultura contadina’.

Se si accoppiano gli effetti della “messa in scena” da un lato e dell’eliminazione delle altre attività produttive dall’altro, si ottiene un deperimento complessivo della città turistica. Che contrasto con quel che vedeva a Matera la sorella di Carlo Levi che s’affacciava per la prima volta sul baratro dei Sassi! Non soltanto i bambini, ma anche le donne avevano il loro posto sulla soglia di casa, a stretto contatto con la terra, le sue tradizioni, e forse le sue divinità. Ora, dentro i Sassi tutto è diventato un unico set cinematografico, con gli inevitabili prodotti invenzione della “tradizione” a uso turistico.

L’invenzione della tradizione non è un trucco, non è una “fregatura” (o almeno non sempre) perché “uno dei maggiori paradossi dell’ideologia [conservazionista] che punta alla preservazione culturale è che inevitabilmente altera, ricostruisce o inventa la tradizione che si propone di mantenere: le tradizioni non sono né genuine né spurie, così che, se la tradizione genuina si riferisce a un patrimonio incontaminato e immutabile, allora tutte le tradizioni sono spurie. Ma, se la tradizione è sempre definita nel presente, allora tutte le tradizioni spurie sono genuine”. Anche se originariamente la tradizione inventata è sempre pensata come una soperchieria, poi acquista una sua verità, una sua realtà, proprio come il tabarro è ormai davvero il segno della ‘materanità’.

La nozione di “autenticità messa in scena” apre nuove prospettive. Soprattutto se si tiene conto che i turisti sanno (sappiamo) benissimo che quel che viene esposto allo sguardo è messo in scena, truccato, allestito, è la ribalta. Per cui cercano sempre di andare a vedere dietro le quinte: non c’è signora che non provi a entrare nella cucina di un ristorante per vedere come è preparata la ricetta; è questo uno dei motori dell’industria turistica: il disvelamento progressivo del retroscena che viene offerto al turista come spettacolo. È una rincorsa senza fine quella dal palcoscenico al retroscena, che a loro volta diventano ribalta di un nuovo spettacolo di cui si cerca il backstage e così via.

Ma la nozione di “autenticità messa in scena” è particolarmente fertile quando è applicata alla relazione tra gli “autoctoni”, gli “indigeni” di una città turistica, e i “visitatori”; in particolare i mutamenti culturali indotti nei due gruppi, gli accoglienti e gli accolti. Il problema è che il rapporto tra residenti e turisti è tutto fuorché un rapporto di ospitalità e invito, non fosse che per il fattore denaro. Lungi dall’avvicinarli, il turismo allontana i popoli, in quanto sia i residenti, sia i visitatori si mostrano nel loro aspetto peggiore.

E per gli altri autoctoni, che di turismo non vivono? Viviamo sotto lo sguardo turista, sempre sotto sorveglianza di uno sguardo letteralmente “fuori posto”. I residenti sono costretti a entrare in clandestinità, ben consapevoli che prima o poi anche quegli indirizzi affioreranno dai retroscena e saliranno alla ribalta, costringendo gli autoctoni a cercare nuovi anfratti, nuovi rifugi provvisori di vita, la città turistica diventa invivibile per l’autoctono che sempre meno può permettersela in termini economici e sempre più ne è espulso in termini relazionali.

Con quali altre lenti – esemplificazione minimale dell’oggi – si può leggere la decisione dell’Amministrazione Bennardi di cancellare il Parchetto di Lanera (‘spazio vuoto’ l’hanno definito!) per far posto ad un ‘parco a tema’ sulla Balena Giuliana? Se l’ossessione è quella di competere nel mercato turistico, che peso possono avere il valore storico-identitario di un luogo, gli usi di quel luogo da parte dei suoi abitanti – bambini, famiglie, relazioni? Sono altre le priorità! E così, per un po’ di fresco, di spazio, di convivialità, gli ‘espulsi’ si cerchino altre soluzioni …

E poi verranno altre urgenze ‘turistiche’, altri allontanamenti … Proprio come accade in tutte le altre città turistiche e d’arte …

In quanto industria, il turismo rende la città invivibile, proprio come la città manifatturiera. Il turismo non provoca questi effetti, ma uccide la città in modo più sottile, svuotandola di vita, facendola diventare un immenso parco a tema, un’immensa Disneyland storica, in una sorta di mummificazione urbana: musei e paninoteche, ruderi e boutique di lusso, “suoni e luci” tra pizze al taglio e ristoranti, isole pedonali e poi tanti dormitori, eleganti per ceti medi, B&b per chi non può!

Il turismo, producendo crescita economica e sviluppo distrugge le fondamenta su cui quella crescita era basata: basti ricordare l’agonia dei Sassi – recuperati alla loro originaria vocazione abitativa, oggi sono sostanzialmente ‘colonizzati’ dal turismo. Città gloriose, opulente, frenetiche, che per secoli e a volte per millenni sono sopravvissute alle peripezie della storia, guerre, pestilenze, terremoti; oggi a decretarne la morte – la mummificazione – basta un verdetto emesso dall’Unesco, di “Patrimonio dell’umanità”. Un urbanicidio commesso in perfetta buona volontà e buona fede, per preservare (appunto) il patrimonio dell’umanità, ma imbalsamandolo, letteralmente fermando il tempo, fissarlo come un’istantanea fotografica, sottrarlo quindi al divenire. Va trovato un equilibrio: noi volevamo vivere in città che includessero musei e opere d’arte, non in mausolei con annesso dormitorio.

Più piccola è la città, più rapido l’urbanicidio: “La città patrimoniale è messinscena e convertita in scena: da un lato illuminata, ripulita allestita a scopi d’abbellimento e di esposizione mediatica, dall’altro teatro di festival, feste, celebrazioni, congressi veri e falsi happening che moltiplicano il numero dei visitatori dopo aver mobilitato l’ingegnosità degli animatori”. Addobbata di cartapesta, quest’assenza di vita pervade tutti i siti musealizzati.

 

Per dirla brutalmente, l’antico è diventato il paradigma del moderno nella pianificazione delle città contemporanee, o almeno dei loro ghetti turistici: così anche nella versione Unesco la città muore, abbandonata dagli autoctoni e occupata da una diversa “altra classe”, quella dei “turisti” che, nella città morta continuano a vagare sempre solo tra cimiteri e rigattieri!

 

Un’alternativa migliore a questo modo di essere turisti non esiste. Ma, anche l’età del turismo è destinata ad estinguersi così come sono cambiate, nel corso dei secoli, le modalità attraverso cui si è stati turisti. La liquidità della società, la facilità degli scambi e dei viaggi fra le varie parti del mondo, porterà man mano quella che era un’attività impegnativa per dispendio di energie temporali, economiche e mentali, a confondersi con i ritmi forsennati del mondo contemporaneo fino alla totale mancanza di discernimento nel riconoscere un turista da una qualsiasi altra persona.

Il punto centrale è che il capitalismo maturo ha bisogno di occupare tutto lo spazio vitale dell’individuo. Il turismo è parte dello spazio vitale e quindi viene occupato. “Nessuno viaggia per il piacere di viaggiare; ma qualche piacere è forse connesso al viaggiare e quindi compito di ognuno è cercare di massimizzare questo piacere senza farsi schiacciare dall’insensatezza che lo avvolge” . Una speranza quasi impossibile:contro la distruzione dei nostri ambienti di vita, contro un turismo predatorio e autodistruttivo, occorrerebbe una nuova ecologia popolare: far crescere l’autoconsapevolezza di turisti e autoctoni, per rimettere in discussione tutto, nei fatti!

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