lunedì, 14 Luglio , 2025
HomeUncategorizedLA CANDIDATURA CIFARELLI: TRASFORMISMO O ‘DEMOCRAZIA DUALE’?

LA CANDIDATURA CIFARELLI: TRASFORMISMO O ‘DEMOCRAZIA DUALE’?

A mio parere, Roberto Cifarelli propone la propria candidatura a Sindaco della Città giocando su una ambiguità che dovrà essere risolta prima del voto, se non intende venga percepita come mera operazione trasformistica.

Nelle motivazioni addotte alla candidatura, sostiene che “i modelli politici devono essere adattati ai territori, guardando alle singole specificità. Vorrei tornare allo spirito di un tempo – conclude – quello a favore della comunità, riprendendo la battaglia dall’interno”. “Il progetto “I giovani per Matera, Matera per i giovani” (rappresenta) un momento di partecipazione e condivisione che segna l’avvio di un percorso aperto, inclusivo e orientato al futuro della città”. “Questa esperienza – questa scelta – nasce nel solco e nel ricordo di una decisione coraggiosa e innovativa, come quella che presi all’inizio del mio percorso politico, al fianco di Mario Manfredi, allora sindaco. Il ricordo di quell’esperienza, di quel modo di fare politica, fondato su comunità, partecipazione e visione, è oggi più che mai un punto di riferimento”.

Ora, delle due l’una: o Cifarelli omette, per opportunismo, di ricordare che dal 1994 sono trascorsi oltre trent’anni e che le premesse della scommessa “Manfredi”, allora vinta, oggi sono inimmaginabili (i partiti del centrosinistra del tempo s’erano volatilizzati e s’inaugurava proprio a Matera, dopo Napoli, la stagione del ‘progressismo’, cioè di quel sentiero che avrebbe dovuto condurci alla trasformazione dei territori e del Paese – misurato sul passo di ‘chi non ha voce’). Un’idea, un tentativo, poi naufragato definitivamente ad opera dei nuovi vincitori della lotta di classe: i ricchi e il loro neoliberismo, che era riuscito – nel frattempo – ad ammaliare le forze riformiste e il loro riferimento partitico più importante, il PD. Oggi, siamo ancora a patirne il dominio, anche attraverso la disaffezione alla politica e il rifiuto dei partiti.

Se alla base della scelta di Cifarelli c’è davvero opportunismo, allora la tecnica da lui utilizzata è quella tipica del trasformismo: ha operato uno spostamento di campo, avendo preso atto che le ragioni della precedente divisione destra/sinistra sono venute meno in seguito all’evolversi delle situazioni e all’affacciarsi di problemi che giustificano convergenze prima impensabili. E da lui viene considerato positivamente, vedendovi il segno della capacità di liberarsi di pregiudizi e adeguarsi alla concretezza delle situazioni. Ma, se è così, per contro, viene considerato negativamente da coloro – e io tra questi – che lo reputano la prova di un cedimento per ottenere vantaggi da chi più ha da offrire, e quindi una causa di inquinamento di quella politica che guarda al futuro.

Ma, è possibile un’altra lettura del suo gesto e starebbe nella percezione – da parte sua – della gravità della crisi della rappresentanza e l’ascesa di una democrazia duale.

Sono in molti – soprattutto nell’opinione pubblica – a con­dividere l’idea che l’attuale crisi della rappresentanza politica vada ben oltre la ridotta percezione di legittimità di partiti e organizzazioni sociali. Guardando alla sfera locale, tale crisi ha diverse ragioni:

Da un lato, vi sono i tradizionali fattori socioeconomici, il cui peso determinante nella differenzia­zione della partecipazione politica ed elettorale è amplificato dalla destrutturazione dei partiti e dalla «privatizzazione» della politica.

Dall’altro, vi è una crescente stratificazione civica

Assistiamo così a una ‘distanza’ crescente fra la popolazione e suoi rappresentanti nelle istituzioni formali: in Città, ad esempio, sindaci e Consigli comunali sono scelti da elettorati sempre più ristretti per effetto della drastica riduzione dei livelli di partecipazione elettorale. Questa condizione di «democrazia limitata» ha effetti molto importanti sulla qualità, l’equità e l’inclusività delle politiche locali: la stessa riduzione dei divari sociali e spaziali è difficile a immaginarsi senza la partecipazione attiva di chi direttamente li subisce.

Sui divari che riguardano la democrazia e la cittadinanza prevale un atteggiamento molto spesso fatalista e la stessa concezione di legalità oggi prevalente sembra escludere uno dei capisaldi essenziali di una democrazia costituzionale: il diritto a partecipare all’assunzione delle decisioni pubbliche e il dovere delle istituzioni di assicurare contesti entro i quali un numero sempre maggiore di persone possano esercitare tale diritto.

Cifarelli s’è convertito dopo la caduta da cavallo? Se è così, proviamo a sottoporgli un abbozzo di ragionamento, un «approccio volontaristico» alla costruzione delle de­mocrazie locali, che abbia come obiettivo la riduzione dei divari anche in questo campo e che muova da due principi generali dai quali discendano una serie di interventi concreti:

Principi fondamentali per una democrazia locale più equa

  • Il primo principio è che la democrazia locale deve tendenzialmente includere l’universalità degli abitanti di un dato territorio, rimuovendo un’ampia serie di barriere e ripensando le forme della cittadinanza locale. La rimozione di queste barriere sarebbe una scelta necessaria a impedire che i confini della democrazia locale continuino a coincidere con le barriere formali che separano persone ugualmente presenti sul territorio, parimenti partecipanti alla sua vita sociale ed economica, ma diverse sul piano formale e, di conseguenza, diseguali su quello sostanziale.
  • Il secondo principio è che la democrazia degli abitanti deve inevitabilmente riferirsi a una pluralità di forme di partecipazione, capaci di rispondere alla crescente diversifi­cazione sociale. Ci sono diverse politiche recenti, sperimen­tali e innovative, nate con l’obiettivo dell’inclusione di più ampie platee di cittadini/abitanti nei processi decisionali a livello locale. Possiamo ricondurle a tre grandi famiglie:
  • politiche di trasparenza, finalizzate a una maggiore accessibilità dei dati riguardanti l’azione pubblica;
  • politiche di partecipazione degli abitanti nell’elaborazione di politiche pubbliche, che hanno un impatto sul processo decisionale istituzionale e che – sempre più spesso – sono caratterizzate dall’integrazione di strumenti digitali
  • politiche di collaborazione e co-produzione che – spesso partendo da laboratori e forme di coprogettazione – pro­pongono nuove modalità di definizione e gestione condivisa di determinati beni pubblici/comuni e/o la coproduzione di servizi, anche attraverso «patti» non limitati ad attori formalizzati, ma estesi anche a individui e gruppi informali: i servizi pubblici collaborativi, i patti di collaborazione pubblico-privato sociale, le Case di Comunità, Le case della salute, le Reti pubblico-private sociali per la gestione delle biblioteche, ecc.[i].

Per rafforzare la pluralità delle pratiche partecipative facendo sì, al contempo, che contribuiscano a un concreto allargamento delle democrazie locali, occorre quindi un nuovo approccio:

  • In prima istanza, è necessario rilanciare il ruolo delle istituzioni della democrazia rappresentativa. In anni recenti vi è stata una spinta alla forte riduzione della rappresentanza locale, di cui sono esempi calzanti l’abolizione dell’elezione popolare dei consigli provinciali, la previsione di una debole legittimazione popolare delle autorità metropolitane e l’abolizione dei consigli circoscrizio­nali per le città con meno di 250.000 abitanti. In parallelo, il rafforzamento degli esecutivi, a detrimento dell’azione legislativa-consiliare, ha teso a combinare la riduzione della rappresentanza a favore della «governabilità» attraverso dispositivi quali premi di maggioranza e soglie elettorali, contribuendo a una diminuzione graduale della legittimità, reale e percepita, delle istituzioni rappresentative.
  • In secon­da istanza, se l’obiettivo primario è l’inclusione dei gruppi sociali con meno potere e meno capacità organizzativa, non è possibile improvvisare il coinvolgimento degli abitanti nella costruzione delle politiche pubbliche. Per non restare nel campo della retorica, questa politica va perseguita esplicitamente, con mezzi e risorse – finanziarie, umane e metodologiche – adeguate ai molteplici obiettivi che si propone.

Di fatto, i processi partecipativi e deli­berativi, affinché siano in condizione di produrre elevata qualità argomentativa, proposte efficaci e risultati incisivi, richiedono

  • innanzitutto – di poter essere percepiti come legittimi e credibili, in virtù di tutele normativo-legali e di risorse associate alla sperimentazione. In tale ottica, le po­litiche partecipative devono – da subito – porsi l’obiettivo di ridurre il più possibile il potere di condizionamento delle tradizionali lobby del mattone, determinati attori politici o amministrativi, procedure burocratiche, regole informatiche, ecc.) per acquisire autorità e credibilità come spazi portatori di una più giusta distribuzione di risorse e poteri, nonché di un riconoscimento mutuo tra i diversi attori del territorio.
  • Infine, occorre agire affinché la pluralità delle forme della partecipazione a livello locale non implichi una loro mutua esclusività e non si inneschino dinamiche competitive in cui la frammentazione e/o la reciproca delegittimizzazione indeboliscano i singoli canali e progetti. Al contrario, bi­sogna puntare a un coerente coordinamento, «sistemico» e sinergico, tanto tra gli esperimenti partecipativi stessi (appar­tenenti alle diverse «famiglie» precedentemente citate) che tra questi e le istituzioni rappresentative locali.

Sulla base di queste premesse, è fondamentale che qualsiasi disposi­tivo istituzionale di partecipazione rispetti alcuni principi di base[ii].

Di grande importanza sono anche le forme della democrazia che possiamo definire conflittuali o «insorgenti». Da una parte, il tramonto dei grandi attori collettivi – i partiti, le organizzazioni sociali di massa – ha determinato un forte deficit di auto-organizzazione e di rappresentanza nella società italiana; dall’altro si assiste a un proliferare di manifestazioni di auto-organizzazione a scala locale.

Tali manifestazioni possono essere caratterizzate da diversi gradi di conflittualità o collaborazione con le istituzioni, da una variabile capacità di includere gruppi sociali marginali e da una maggiore o minore estraneità a processi istituzionali di governance locale.

Si tratta di esperienze in cui la riappro­priazione dei beni comuni urbani sembra giocare un ruolo centrale e gli spazi riattivati diventano luoghi dove generare nuove comunità politiche:

In alcuni casi queste pratiche tendono a essere ignorate, se non osteggiate, dalle stesse istituzioni che promuovono forme di partecipazione struttu­rata.

In altre esperienze, le istituzioni, a diversi livelli, hanno invece sostenuto anche i processi di auto-organizzazione sociale non miranti esclusivamente alla gestione sussidiaria di determinate funzioni pubbliche mostrando come con­flitto e collaborazione possano essere parte di uno stesso processo politico.

Naturalmente, l’istituzionalizzazione delle pratiche di auto-organizzazione comporta dei rischi: l’au­tonomia d’azione della società civile e la sua capacità – se necessario – di confliggere con i rappresentanti eletti sono elementi indispensabili della democrazia, senza i quali squilibri e disuguaglianze difficilmente saranno ridotti.

Da questo punto di vista, l’organizzazione attiva del dissenso e di blocchi di potere alternativi a quelli esistenti, può rappresentare un campo rilevante entro il quale ricercare possibili articolazioni fra agire degli attori sociali e ruolo attivo delle istituzioni nel rafforzare le democrazie locali attraverso il sostegno all’ auto­organizzazione, anche in chiave conflittuale, degli abitanti.

Per una politica nazionale della partecipazione

Cogliendo il nostro stesso invito a un «approccio volon­taristico» alla costruzione delle democrazie locali, pensiamo che il prossimo ciclo di programmazione della politica di coesione e della quasi certa ricalibratura dei fondi del cosiddetto Resilience and Recovery Facility rappresentino un’opportunità per lanciare una politi­ca nazionale della partecipazione finalizzata alla costruzione della democrazia degli abitanti. Un sindaco ‘contemporaneo’ non può rinchiudersi nel proprio campanile! Deve adoprarsi perché l’ANCI, i Gruppi parlamentari, le forze politiche e l’opinione pubblica si mobilitaino per conseguire significativi risultati[iii].

È questo che intende Cifarelli con ‘nuovo inizio’? Sarà riuscito a farlo ben comprendere alla sua inedita ‘compagnia di giro’? Le Associazioni di quartiere, il loro Coordinamento che pro-tempore rappresento, La Marcia per la cultura e il lavoro cui aderiamo, restano ben vigili!

Note

 

[i] Sebbene i loro promotori cerchino di contrastare meccanismi di esclusione formale, tali esperimenti hanno evidenziato il rischio di riprodurre gli stessi cleavage e polarizzazioni osservabili nei processi della democrazia rappresentativa. Questo rischio aumenta per i gruppi sociali con scarsa padronanza della lingua locale o con capacità digitale limitata, per portatori di esigenze speciali motorie o visuali, per anziani non autosufficienti e per bambini e adolescenti. In particolare, data la natura fortemente discor­siva dei processi partecipativi, il capitale culturale continua a rappresentare un fattore decisivo di esclusione o scarsa attrattività per determinati gruppi sociali. Inoltre, le forme più evolute di governance urbana, sebbene coinvolgano un elevato numero di attori, raramente conducono all’inclusione di gruppi sociali scarsamente organizzati o emarginati. Esiste poi un ulteriore rischio: quando le forme di democrazia par­tecipativa o di governance nascono in contrapposizione e/o arrivano a sostituire quelle rappresentative, contribuiscono sostanzialmente all’indebolimento del senso e della funzione delle istituzioni rappresentative. Tale rischio spiega in parte perché poche amministrazioni si impegnino affinché queste esperienze evolvano da meri «esperimenti una tantum» in consolidate pratiche radicali di intensificazione democratica capaci di valorizzare i saperi «politici» di cui gli abitanti possono essere portatori.

[ii] POLITICHE PARTECIPATIVE: I REQUISITI INDISPENSABILI

  1. Garantisca l’accessibilità universale per chiunque abbia un ruolo e un interesse nella comunità locale, a prescindere dai luoghi di residenza formale
  2. Sia associato a meccanismi di ingaggio e coinvolgimento del maggior numero possibile di persone, nel tentativo di mantenere un equili­brio fra: inclusività di diversi «tipi» di partecipanti e azioni affermative per valorizzare e accrescere la presenza, la visibilità e la capacità contributiva e decisionale di chi è sottorappresentato
  3. Veda le istituzioni pubbliche non quali mere promotrici dei percorsi partecipativi/deliberativi, ma quali garanti dell’equità tra gli abitanti che vi partecipano, anche attraverso la promozione di percorsi formativi per la diffusione di conoscenze fattuali in relazione agli oggetti della deliberazione
  4. Si basi sull’uso di una pluralità di lingue, linguaggi e strumenti comuni­cativi per ampliare le forme di accessibilità, indipendentemente dal grado di scolarità e capacità interpretativa dei singoli
  5. Includa il monitoraggio e la valutazione collettivi dei percorsi parteci­pativi/deliberativi e dei loro sistemi coordinati, finalizzati a une revisione ciclica di regole e metodologie che massimizzino l’equità, l’inclusività e l’efficacia dei processi. Criteri di valutazione relativi alla partecipazione e alla democrazia locale potrebbero essere impiegati nella regolazione dell’accesso ai fondi pubblici, in modo da orientare i percorsi partecipativi/deliberativi alla massima inclusività possibile
  6. Si basi sull’integrazione «consapevole e mirata» delle tecnologie digitali, sia nella forma delle diverse piattaforme di e-democracy, sia in quella degli strumenti commerciali di interazione digitale (per es, i social networks). li coinvolgimento degli abitanti nel disegno dei processi partecipativi è partico­larmente importante per le scelte metodologiche che prevedono l’utilizzo di questi strumenti che, essendo portatori di una complessità e di meccanismi di inclusione/esclusione specifici, richiedono conoscenze e competenze spesso non diffuse socialmente
  7. Persegua l’obiettivo della sovranità digitale attraverso il controllo di in­frastrutture e strumenti che costituiscono l’ecosistema digitale dei processi partecipativi, la definizione collettiva delle modalità di ingaggio do parte degli utenti, e il controllo delle conoscenze e dei dati generati tramite le interazioni partecipative

[iii] La necessità di una politica nazionale si giustifica da diversi punti di vista:

  • Il primo è che la crisi della democrazia necessita della riaffermazione di alcuni fondamentali dimensioni riguardanti i diritti e doveri di partecipazione che sono alla base di una democrazia costituzionale.
  • Il secondo è che la rimozione delle barriere formali all’inclusione non può che essere in capo allo Stato, e solo in seconda istanza agli enti locali.
  • Il terzo è che le società locali non hanno la medesima eredità e capacità con­solidata – anche istituzionale – in termini di partecipazione, ed è quindi compito dello Stato porre le condizioni per il superamento di questi divari nel medio periodo.
  • Il quarto è che solo un’azione pubblica a scala nazionale può permettere la circolazione e il coordinamento fra esperienze e comunità di pratica già esistenti ma che, a causa delle loro risorse limitate, non riescono ad essere promosse da nicchie speri­mentali a politiche
  • Il quinto è che un passaggio del genere – il quale può avvenire solo stabilendo un legame diretto fra Stato, reti nazionali di pratiche e dimensione lo­cale – può rimuovere gli ostacoli, rappresentati – talora – da sistemi politici locali chiusi e controllati da ristretti gruppi di potere, al costituirsi di democrazie locali più inclusive.

 

RELATED ARTICLES

Rispondi

I più letti