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La Basilicata, terra di briganti non di reazione. Parte seconda

Fino a metà maggio 1861 in Basilicata c’erano tre bande di grandezza variabile e con pochi elementi fissi. La banda di Carmine Crocco, quella di Luigi Romaniello, detto Chiofaro, e quella di Vincenzo Mastronardi, più noto come D’Amato («Il Corriere lucano» del 14 maggio 1861).

E non fu per amore della causa borbonica che questi si diedero alla campagna negli anni 1861-’62. Ancor meno questa motivazione contò per chi li seguì negli anni a venire. Anche perché la coloritura politica era pervenuta ai capibanda dalle tradizionali relazioni di patronage che li legavano alle grandi famiglie, (gli Aquilecchia, i Colabella, i Rapolla, i Fortunato) ancora legate alla vecchia casa regnante. Quei legami furono però tagliati dopo che qualcuno di loro era finito in carcere in seguito al saccheggio di Melfi e Venosa. Presero allora atto che stare a capo dei surici ‒cioè, i topi, come erano chiamati i reazionari, era pericoloso. Tanto più che il nuovo governo, che aveva bisogno di un ceto dirigente locale ma, con poche eccezioni (i Lacava, i Senise ad esempio), diffidava degli autentici liberali nei quali vedeva dei pericolosi mazziniani, fece di tutto fece di tutto per attirarli nella sua orbita. Anarchia amministrativa, ma guanto di velluto con i signori e pugno di ferro con i contadini. Le cui proteste furono soffocate da ondate di mandati di arresto che riempirono le carceri di detenuti e le campagne di latitanti. I quali dovettero rubare per sopravvivere, unirsi a chi si trovava nelle stesse condizioni e una volta entrati nell’illegalità dare sfogo agli odi che avevano accumulato dalla nascita contro i galantuomini.                                                        Come si era arrivati a questo?                         Negli anni in cui il fenomeno sembrò incontrollabile, qualcuno ebbe a dire: «Date una moggiata [di terra] al contadino e si farà scannare per voi» (Cit. da B. Croce, “Storia del Regno di Napoli, Bari, 1966, p. 338). E persino Cesare Lombroso, che, da medico militare, i briganti li aveva conosciuti, sosterrà che a generarli era stata la mancata divisione delle terre, gli abusi feudali dei galantuomini, la cattiva gestione dei municipi. Lo provavano i 44 comuni lucani – su 124- che, amministrati onestamente, non avevano avuto briganti (C. Magistro, Gli studi sulla questione brigantaggio, 2 novembre 2006 in https://www.montescaglioso.net/node/1210).    Se quanto si è detto è vero, può sostenersi fondatamente che l’intervento di qualche migliaio di agenti demaniali avrebbe potuto risparmiare al Mezzogiorno i lutti e i costi provocati dalla repressione militare e dall’imperversare degli odi di fazione. Ma l’amministrazione statale era ancora in fase di riorganizzazione e i primi governi postunitari temevano con la divisione dei demani di colpire gli interessi dei galantuomini il cui consenso volevano invece conquistare.  Quando gli agenti demaniali arrivarono, molti sindaci, spesso loro stessi ladri di terre appartenenti alla collettività, li accolsero come appestati e fecero di tutto per incepparne l’opera. E il disprezzo loro riservato colpì anni dopo anche i loro famigliari. Come ricorderà Francesco Saverio Nitti che, da collegiale, a Potenza, era stato bullizzato dai compagni figli di simili signori solo perché il padre aveva fatto l’agente demaniale (F. Barbagallo, «Nitti», Torino 1984, pag.9).                                          Contribuirono inoltre al brigantaggio gli sbandati dell’esercito borbonico e i renitenti alla nuova leva. Ma fu, soprattutto, la legge Rattazzi sull’ordinamento dei municipi che, dando ai sindaci i poteri di polizia consentì loro di servirsene per vendette private usando la guardia nazionale.                                              Usata per lotte personali, questa forza sarà denunciata anche dal ministro degli interni, Silvio Spaventa per il malcostume di tanti suoi militi che si appropriavano del bottino dei briganti sottraendo corpi di reato alla giustizia e scandalizzando l’opinione pubblica che vedeva le guardie beneficiare dei reati dei ladri (Oggetti presi ai briganti, Potenza 11 luglio 1863, in «Giornale di Prefettura della provincia di Basilicata» del luglio 1863, pagg 119-120).    Per mettere fine agli abusi di sindaci e guardia nazionale il prefetto di Potenza ed ex generale Giulio, De Rolland interverrà con un decreto in cui si legge: «si arresta senza mandato, dietro leggerissimi indizi, per semplici sospetti, e si arresta non solo, ma si commettono atti inqualificabili, che costituiscono, per meno enormi abusi di potere» (Arresti arbitrari, «Il Corriere Lucano», 5 giugno 1861).                     Alla luce di questi fatti e di tanti altri che si potrebbero citare è evidente che molti dei mali che colpirono le popolazioni del Sud in quegli anni non venivano, per dirla con Crocco, da qualche «mangia sive [sugna, ndr.] fesso del piamonte [Piemonte, ndr]» (Lettera di Crocco al prefetto De Rolland, «Il Corriere Lucano» del 14 agosto 1861). Senza nulla togliere ai limiti del nostro processo unitario, non è accettabile, tuttavia, che si parli del brigantaggio in termini di guerra anticoloniale.  Se è infatti è innegabile che esso fu anche reazione, va detto pure che la fase politica ebbe breve vita. Gli episodi di cospirazione di cui si trova traccia negli archivi, si ebbero, infatti, quasi soltanto nel 1861 e furono piuttosto insignificanti. Qualche straccio bianco innalzato sulle biche di grano, dei mendicanti assoldati per diffondere voci di arrivi di truppe a sostegno di Francesco I, qualche lettera che diffondeva falsi allarmi. Terribili e suscitatrici di un terrore che solo l’arrivo delle prime truppe regolari – un battaglione della Brigata Pisa – e la promessa di inviarne altre riuscì a mitigare, furono invece le invasioni di un’ottantina di paesi avutesi fra l’aprile e il novembre di quell’anno (Al 2º Battaglione del 30º Reggimento Brigata Pisa, «Il Corriere Lucano», 16 aprile 1861).                                  Volendo indicare una data della transizione dalla reazione al malandrinaggio, si potrebbe scegliere il 27 novembre 1861, il giorno in cui Carmine Crocco dà il benservito a Josè Borjes (M. Donativi, [a cura di] «Carmine Crocco, come divenni brigante», Ed Trabant 2009, pag. 9. Marco Caccavo, Carmine Crocco e il brigantaggio meridionale, Italies, 20 | 2016, 157-171).                                Come è noto, fin dall’arrivo in Basilicata, lo spagnolo aveva nitrito forti perplessità riguardo ai reali sentimenti della popolazione verso i Borbone, ma era soprattutto il numero e la qualità degli sbandati del disciolto esercito borbonico che lo seguivano a lasciarlo perplesso. Lui aveva sperato nella formazione di comitati insurrezionali appoggiati dai Magnati del Clero in ogni paese e si ritrovava, invece, con della «canaglia feroce» che non rispettava nulla e nessuno. La rottura fra i due fu commentata positivamente dalla parte liberale, in particolare dal più volte citato Corriere Lucano che vide in questo la prova che la Basilicata era terra di brigantaggio, ma non di reazione (Sempre del brigantaggio, «Il Corriere Lucano» del 31 dicembre 1861).

Cristoforo Magistro
Cristoforo Magistro
(Montescaglioso 1949), è laureato in lettere e ha insegnato Italiano e Storia nei corsi di scuola media per adulti a Torino. Appassionato di storia regionale, si è interessato al brigantaggio, all’emigrazione transoceanica, alla figura di Francesco Saverio Nitti, al fascismo e alle lotte per la terra del secondo dopoguerra. Vari suoi saggi e articoli si possono leggere sulle riviste Bollettino Storico per la Basilicata, Basilicata Regione, Mondo Basilicata e su libri di autori vari (Soveria Mannelli 2008: Villa Nitti a Maratea. Il luogo del pensiero; Torino 2009: Dalla parte degli ultimi. Padre Prosperino in Mozambico; Potenza 2010: Potenza Capoluogo (1806-2006)). Ha curato inoltre mostre foto-documentarie sull’emigrazione italiana, sugli stranieri in Italia, sulla vita e l’opera di F. S. Nitti, sulle donne al confino e sul confino degli omosessuali nel Materano. Quest’ultima è stata presentata finora in una quarantina di città e ultimamente a Firenze e a Cagliari nelle sedi regionali. Ampliando la ricerca sul suddetto o tema ha poi pubblicato il libro Adelmo e gli altri. Confinati omosessuali in Lucania (ombrecorte, Verona 2019) andato presto esaurito. Ha poi svolto un’ampia ricerca sugli stupri commessi nella regione negli anni del grande brigantaggio  e sui femminicidi e gli omicidi commessi da donne. L’una e l’altra sono in speranzosa attesa di pubblicazione.
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