Ci chiamavano ‘i fratelli siamesi’; alcuni – certo non i compagni, non ‘i politici’ – scambiavano persino i nostri cognomi. Abbiamo attraversato, ‘culo e camicia’ almeno un ventennio della comune militanza nel Partito Comunista e nelle vicende amministrative materane.
C’eravamo già conosciuti e frequentati nelle lotte del Febbraio lucano del 1970 – che a ben diritto appartengono al lungo Sessantotto italiano! – lui segretario della Giovanile comunista e io allora militante extraparlamentare tra i promotori di quelle lotte – studentesche per il diritto allo studio, e operaie per l’industrializzazione della Valbasento, e civiche per impedire l’esproprio delle fonti energetiche fossili allora estraibili perché finalmente convenienti. Eravamo su posizioni assai poco conciliabili, allora; noi del “Febbraio” e loro del PCI; li giudicavamo ‘revisionisti’, troppo accomodanti alle pretese moderate del ‘sistema democristiano’ imperante, che si accontentava della gestione subalterna di alcuni interessi della grande impresa che andava impiantando ‘cattedrali nel deserto’, acconciandosi a ufficio di collocamento per il consenso elettorale; così come faceva tra i braccianti e i contadini della Riforma fondiaria ‘stralcio’, o nell’immigrazione – a scapito dei paesi dell’interno – di ‘raccomandati’ nell’impetuosa e per certi aspetti patologica crescita dei ‘servizi senza sviluppo’ nei capoluoghi.
Una critica, uno sfottò, che ha punteggiato anche i rapporti tra noi: come mai, gli chiedevamo, proprio tu che vieni dalla facoltà famosa e terribile di Sociologia a Trento, sei andato a finire tra i ‘moderati’, persino dentro il PCI? Con quell’espressione, tra la ritrosia che sorride e il compassionevole che ammonisce, riusciva puntualmente a scansare la risposta e io ancor oggi non so cosa pensasse di tutto questo in una situazione cittadina politicamente ‘povera’ come la nostra. Gli ricordavo spesso il paradosso di un partito locale ‘ingraiano’ – di sinistra – nella sua base, e ‘riformista’ – moderato anche troppo – nei suoi vertici. Non ricordo che Saverio si sia mai apertamente schierato nelle baruffe del partito locale; rimaneva in quel che era ‘possibile fare’ per compiere un passo in più verso il miglioramento della comunità materana – quella a maggior disagio sociale, anzitutto.
Insieme, al di là dell’attività di partito nella Città, abbiamo lavorato come ciucci nel Gruppo PCI del Consiglio comunale (due mandati nell’arco di un quindicennio e la percezione conclusiva di un mio incipiente esaurimento nervoso); tranne una brevissima parentesi di poco più di un anno, sempre all’opposizione delle Giunte di centro-sinistra. Saverio capogruppo, io vice; a studiare, documentarci, creare e mantenere relazioni con quanti già ne avevano o ne andavano creando con la macchina comunale, con le istituzioni del territorio; a rendere conto nelle sezioni e nei Quartieri, nei rioni. Il rilancio del trasporto urbano dopo il fallimento della CAMERF, con l’idea progettuale della ‘metropolitana di superficie’ ancor oggi congelata per le mire delle FAL e la debolezza ‘organizzata’ ormai congenita della politica; il ripensamento del ruolo produttivo e sociale della nostra cittadina nel suo contesto territoriale alle scale sempre più vaste, che ha prodotto proposte ed esperimenti anche assai significativi e purtroppo momentanei a causa delle urgenze dettate dal consenso elettoralistico (ma anche e tante volte per povertà della riflessione collettiva del PCI nostrano, delle istanze corporative dei sindacati e dell’associazionismo d’imprese asfittiche, i tatticismi egoistici delle componenti del centro-sinistra del tempo); tutta la vicenda del Concorso Internazionale per il recupero a fini prevalentemente abitativi dei Sassi e la valorizzazione dell’Altipiano murgico – che ci vide principali protagonisti – assieme al sindaco Acito (dalla decisione di restituire al Comune il potere di definire e gestire il recupero alla formazione e approvazione della Legge 771, ai due Programmi biennali di attuazione degli interventi); il primo tentativo col sindaco Fiamma e la maggioranza di ‘solidarietà nazionale’ di introdurre nella Macchina comunale i Dipartimenti e il lavoro condiviso, per superare vetuste gerarchie esercitate con criteri di potere discrezionale; una normativa della trasformazione urbana in grado di dialogare efficacemente con gli interessi legittimi della comunità e espressamente orientata al diritto all’abitare nelle parti urbane degradate, al diritto ai luoghi comunitari e ai servizi ad essi destinati; e della pianificazione territoriale capace di costruire soglie demografiche, socioeconomiche e di destino per il rilancio del Sud e del Mediterraneo.
Non hanno prevalso, a tutt’oggi, le forze del cambiamento e della trasformazione. Anzi!
Quante volte ho letto anche negli occhi di Saverio l’amarezza della sconfitta di tutta una stagione politica faticosamente costruita sulla speranza di poter rilanciare le ragioni del Sud e del nostro Paese. C’erano – ci sono ancor oggi e dominanti – interessi e rappresentanze che andavano – vanno – distruggendo ogni tentativo di riacciuffare l’economia, ricondurla alla sua funzione di giustizia sociale. Sono riusciti a corrompere anche il pensiero e le pratiche della sinistra illusa di poter cavalcare il neoliberismo: Ricordate la ‘Terza via’ di Blair e Schroeder? E così, slittando di posizione in posizione, ci siamo ritrovati col popolo che si chiede: “perché devo votare questa cosiddetta sinistra che mi offre una mercanzia di seconda scelta quando la destra rappresenta al meglio gli interessi del neocapitalismo e la speranza di beneficiare dello ‘sgocciolamento’ che deriva dall’impiego delle loro ricchezze?
“Bisogna tornare a battersi per l’attuazione della Costituzione”, ripeteva negli ultimissimi anni Saverio. Da lì occorre ripartire per salvare la democrazia sostanziale, per aprire nuove opportunità alla sinistra che verrà. Perché tornerà, con la fame di dignità e di speranza e non soltanto per la rabbia che cresce nel profondo delle nostre società.
E tornerà non soltanto per l’emancipazione e l’uguaglianza materiale; tornerà per rompere definitivamente il dispositivo patriarcale che ci tiene ingabbiati – tutti, anche noi maschi e bianchi e occidentali – nella catena di montaggio del profitto capitalistico. Il femminismo, le culture e le pratiche gay e lesbiche costituiranno il riferimento per questo percorso di liberazione dal patriarcato e oggi non è più tabù parlarne. Ma noi, io e lui; o nelle sezioni di Partito – che pure erano fraterne, solidali, comunità di destino, non ne parlavamo, non ne abbiamo mai discusso; ed erano pochissimi quelli che frequentavano l’UDI, i collettivi femministi. Eppure, anche noi avevamo compreso da decenni che non basta solo ‘il pane’; ci vogliono le ‘rose’ che già ci offriva Rosa Luxemburg oltre un secolo fa. Eppure, non abbiamo mai trovato la forza – nel PCI – per uscire dal vecchio ipocrita pudore ‘stalinista’; quello stesso falso pudore utilizzato dalla dirigenza di partito per infliggere qualche pena anche a noi e che Saverio – questa è la mia impressione – ha patito fino alla lacerazione del suo rapporto con quel che residuava di quel partito. Non saprò mai, forse, quel che gli accadde: era troppo riservato e schivo per parlarne. Di fatto, da allora l’ho sentito allontanarsi. E da lì a poco, anch’io me ne sarei andato: quella comunità non c’era più! E finiva anche il nostro sodalizio; non l’amicizia che ti spinge al sorriso al solo pensarci, anche se non la frequenti quasi più.
Per una comunità che si liquefa non c’è più futuro possibile, se non per le melancolie e i rancori. Occorrerebbe cercare altre strade, nuovi modi dell’azione civica della solidarietà. Lui l’ha cercata nell’Università della terza età, io nella partecipazionattiva nel mio quartiere e negli altri, in Città. Ma non so quel ne pensava.
Non ho trovato neppure la forza di andarlo a trovare durante la malattia: di cosa avremmo parlato; quanto avremmo veramente creduto alle nostre parole? Ecco un altro effetto della comunità comunista liquefatta …