lunedì, 4 Dicembre , 2023
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“PER L’EUROPA ORA BISOGNA GUARDARE A SUD”. MA CHE NE PENSA IL SUD?

I governanti italiani non hanno più alibi! Abbiamo ottenuto dall’Europa più di quanto abbiamo chiesto: L’accordo raggiunto a Bruxelles sul Recovery fund porterà all’Italia circa 209 miliardi di euro (81,4 miliardi come sussidi a fondo perduto e 127,4 miliardi come prestiti) con i quali il governo, dopo avere giocato la partita europea, dovrà affrontare quella interna del rilancio economico

La portata storica dell’accordo sul Recovery fund (750 miliardi di euro) e il bilancio europeo 2020/2027 (1.074 miliardi per sette anni a partire dal 2021) è unanimemente riconosciuta.

Non era scontato nemmeno l’accordo sulle procedure e la gestione del Recovery fund, ma al termine della maratona di Bruxelles, è stato stabilito che, sulla base delle proposte della Commissione europea, i singoli Stati presenteranno i loro piani che dovranno poi essere approvati dal Consiglio a maggioranza qualificata (quindi non all’unanimità). Il Comitato economico e finanziario insieme con i tecnici dei ministeri delle Finanze valuteranno il rispetto di tempi e obiettivi per l’attuazione dei singoli piani.

Sanità, ambiente, fisco, welfare, energia, Sud, infrastrutture: i fronti su cui la politica italiana è chiamata dall’Europa a intervenire nel post-Covid sono molti. E tutti richiedono interventi radicali, con un taglio netto rispetto alle scelte del passato. Sarà capace di farsene carico l’attuale maggioranza di governo anche grazie ai risultati conseguiti in Europa in queste ore?

Non si può tornare al passato, grandi cambiamenti si impongono. Ce lo ripetiamo in tanti, ma un’ansia, sempre più diffusa, si accompagna a questa convinzione: chi e come porterà al nuovo ordine? Le incertezze del quadro nazionale continuano a destare preoccupazione e alimentano l’ansia.

Più in generale, questa pandemia ha rivelato una verità che finora non era evidente. Posto che negli ultimi decenni il dominio di un potere economico/politico quasi incontrastato ha dato modo a chi entrava a farne parte di accumulare ricchezza a scapito dell’equilibrio ambientale e delle condizioni di vita del restante degli esseri umani e delle generazioni future, appare sempre più chiaro che quel potere è ben consapevole degli enormi squilibri che prova a negare, ma mette in conto che saranno gli esclusi a pagarne le conseguenze. E punta a impedire a chi ha la forza dei numeri di tradurla in forza di coercizione e di usarla per fermarlo, pareggiando i conti: con l’ambiente e con l’umanità, di oggi e di domani.

Sappiamo come sia illusorio ritenere che la maggioranza degli eletti in Parlamento sia convinta del cambiamento necessario e si senta investita del compito di portarlo a compimento. Si può sperare, forse, che non vi sia una maggioranza contraria solo perché una buona parte di loro non ritiene che la politica debba rispondere a queste sfide ma obbedisca a tutt’altre ragioni. Certo, tra chi ha compiti di guida, nel governo e nei partiti dell’attuale maggioranza, non mancano uomini e donne che aspirano al cambiamento.

Il progetto politico dell’accordo sul Recovery Fund è quello di un’Europa forte che è finalmente consapevole che può esistere solo così perché altrimenti si dissolverebbe. L’Europa politica degli Stati è frutto di una chiusura con il passato dei piccoli aggiustamenti e delle mille furberie che hanno consegnato il Mediterraneo a turchi e egiziani e hanno visto crescere il peso della Russia a discapito dei Paesi del Sud e del Nord del Vecchio Continente.

“Per l’Europa ora si deve guardare a Sud”, dichiara l’economista Adriano Giannola, presidente dello Svimez, voce autorevolissima del Sud: “Quanto più il Nord abbandona il Sud, tanto più l’Italia si smarrisce”. E la stessa Europa economica perde la partita strategica mondiale. Il Sud va anzitutto ricostruito, con un progetto che consenta all’Italia di recuperare nel Mediterraneo il ruolo di cervello logistico del Sud Europa (nel precedente articolo su Giornalemio: “Il Mezzogiorno dopo la pandemia”, ho argomentato circa le proposte in campo più articolate per il rilancio della piattaforma meridionale nel Mediterraneo e, in queste, del ruolo strategico cui sono chiamati territori di cerniera come Matera).

In questa fase di timido riformismo post pandemia non è possibile però celare il fondato timore che l’Italia non riesca, nemmeno adesso che il contesto europeo lo permette, a trovare il bandolo della matassa, la strada che le consenta di uscire da “una crisi ormai ventennale”.

“Il Sud è l’Italia: un elemento drammaticamente condizionante e al contempo un patrimonio straordinario, disponibile, da mettere a valore con atti e interventi concreti. Non è elegante, né politicamente corretto sottolinearlo, ma prima di tutto occorre dirci con serena chiarezza che dobbiamo fare i conti con il fatto scomodo – oggi più evidente di ieri – che l’Italia è un sistema profondamente dualistico, anche se dal 1992 facciamo di tutto per non vederlo, per illuderci di essere normali con il non piccolo effetto collaterale di peggiorare la condizione e le patologie endemiche del Mezzogiorno, ha commentato il presidente della Svimez. Gioverebbe a tutti la lettura integrale dell’intervista da cui sono tratte queste dichiarazioni!

Il timore che non si vada nel verso giusto trova fondamento, intanto, sui primi atti messi in campo dal governo: “Semplificazioni del sistema Italia” e il progetto “Italia veloce” sulle opere pubbliche che dovrebbero portare l’Italia nel futuro, dove di ambiente e di green non c’è nulla. Tanto cemento, tantissimo asfalto e niente regole. Con le norme sulla liberalizzazione dell’edilizia (art. 10) si torna agli anni della ricostruzione post bellica e all’attacco dei centri storici. Con la cancellazione delle regole di appalto delle opere pubbliche (art. 1) si fa tornare l’orologio della storia a prima di Mani pulite. Con lo sterminato elenco di grandi opere (130) si torna infine al 2001, alla legge Obiettivo del governo Berlusconi.

Il Green new deal avrebbe dovuto sancire – anche in Italia – un cambio di paradigma culturale. Ma ora con il decreto Semplificazione si aprono le porte all’edilizia selvaggia, alle grandi opere e agli appalti senza regole. Il futuro ha ancora un orrendo volto antico, come si vede.

Certo, sono note le resistenze che son venute sin da subito dalle imprese e da Confindustria. La pandemia Covid-19 è il cavallo di troia che può spazzare via ogni illusione. “Il neo-presidente di Confindustria insiste nel dopo-pandemia sull’assioma che l’Italia è il Nord, e neanche tutto, perché siamo ormai al ridotto Lombardo-Veneto-Emiliano, senza Piemonte e Liguria (che aspirano a restare ospiti nel club) e neppure la Toscana, patria nobile di un distrettualismo che doveva metterci al riparo dalle insidie della globalizzazione.”

Il decreto Semplificazione semplifica una sola cosa l’aggressione al territorio attraverso l’indebolimento della valutazione d’impatto ambientale, riducendo la partecipazione al pubblico come previsto dalle direttive europee e dalla convezione di Aarhus (ratificata dall’Italia nel 2001 ndr), la sospensione del Codice degli appalti e gli affidamenti senza gara.
Così, per dare una risposta alla crisi causata dalla pandemia da Covid-19 la ricetta del governo giallo rosso guidato da Conte – per ora – sembra essere duplice: far saltare le regole e realizzare nuove grandi opere come anticipato dal piano Italia veloce presentato alcune settimane fa dalla ministra De Micheli. È la stessa proposta che fece Berlusconi tra il 2008 e il 2011 quando tentò di introdurre il silenzio assenso, depotenziare la Via (Valutazione di impatto ambientale) e presentare un pacchetto di grandi opere, ma allora il Pd si opponeva e anche il M5s dalle piazze urlava contro, oggi miracoli del trasformismo politico italiano, cambiano idea.

Il decreto Semplificazione, con l’allegato grandi opere, prevede un aumento vertiginoso di consumo di suolo e una pioggia di cemento equivalente a una superficie maggiore di quella del comune di Milano, oltre 200 kmq.

Con la testa ancora rivolta a 50 anni fa, il governo, per ora, non affronta le vere questioni che servirebbero a modernizzare il nostro Paese. L’Italia è in grave ritardo rispetto al resto d’Europa nelle infrastrutture per il trasporto pubblico di massa. Il ritardo infrastrutturale dell’Italia nel trasporto pubblico rispetto all’Europa è pesante e questo incide sulla vivibilità delle nostre città e sull’economia.

Nel decreto Rilancio e in quello Semplificazione non ci sono investimenti verso le infrastrutture del trasporto pubblico locale che possa ridurre questo gap con il resto d’Europa. Soprattutto, manca per l’essenziale ancora il Sud, fatta eccezione della caparbia determinazione del ministro Provenzano col suo “Piano Sud 2030”, delle insistenze della CGIL nazionale, delle voci del movimento socio-ecologico, e di pochi altri. E dei timori – ancora e ancora – che nulli cambi davvero!

Pensiamo alle infrastrutture: si punta sul Sud, in questo campo come per l’innovazione tecnologica: come dimenticare la cruda realtà delle cifre per l’andamento degli investimenti da decenni a questa parte e i protagonisti (al MISE, all’Economia, al MIT) di quelle scelte? È di queste ore l’annuncio di un mega-investimento TIM le cui prime due localizzazioni sono al nord; ci si augura che il Ministro per il Sud orienti ora la terza.

E che dire dell’ambiente? Perché incentivi e penalizzazioni non siano puro “greenwashing” occorre andare al cuore del problema: servono a uscire dal fossile o a mascherare la continuità? Le trivelle, in Basilicata, in val Padana e in mare, hanno visto regioni a guida PD in primo piano.

Ecco, per farcela – e per lenire l’ansia – non conviene stare a guardare. Avanzare proposte, azzeccare i destinatari, distinguere amici da contro-rematori. Essere in campo.

I calcoli Svimez prefigurano nel 2021 una ripresa più debole per le Regioni del sud, in particolare degli investimenti, senza i quali appare impossibile difendere e ricreare crescita e posti di lavoro.

“Per evitare la depressione dell’economia del Mezzogiorno, soprattutto dal punto di vista occupazionale, occorre utilizzare al meglio le risorse pubbliche, nazionali ed europee – sottolinea – indirizzandole verso nuove politiche industriali, sociali e fiscali all’insegna di un modello di sviluppo più inclusivo, innovativo e sostenibile, di cui il Mezzogiorno potrebbe rappresentare l’officina europea nel Mediterraneo”, spiega Maurizio Landini. Per questo “i contenuti del Piano Sud 2030 dovranno essere ridiscussi, aggiornati ma soprattutto accelerati. La creazione di lavoro nel Mezzogiorno, in particolare per giovani e donne, deve rappresentare l’obiettivo da cogliere attraverso l’utilizzo di tutte le risorse disponibili. Soprattutto, devono essere esplicitamente indirizzati a cogliere l’opportunità storica di reinserire il Mezzogiorno al centro del Mediterraneo.

Ma il Sud, anche in virtù dei fallimenti delle politiche pubbli­che nei 150 anni dello Stato unitario, arriva all’appuntamento privo di capacità di azione e di spinta interna, in una rassegnata passività: come altrimenti spiegare il criminale silenzio dei sindaci – i nostri compresi -, delle regioni meridionali, alle scellerate politiche nazionali di questi ultimissimi anni? Le classi dirigenti del Sud, a partire dal ceto politico, di sinistra e di destra, senza dimenticare i rappresentanti delle for­ze sociali e sindacali, hanno fatto finta di non accorgersene. Abbiamo sprecato trent’anni!

Oggi, al Sud mancano 874 miliardi di euro. In questa campagna di verità è stato svan­taggiato dalla debolezza delle sue voci, politiche e del mondo del­l’informazione, perché spesso colluse nell’operazione. Ma anche perché si trattava e si tratta non di nascondere o ridimensio­nare, ma capire e denunciare perché vengono spese – quando vengono spese – male o del tutto sprecate anche le risorse (minori) che arrivano.

E per venire a noi, alla nostra Città, alla scadenza elettorale municipale: chi s’illude che per cambiare musica sia sufficiente il ricambio del ceto politico e amministrativo, replica il vecchio errore: sul banco degli imputati dovrebbero esserci anche i veri detentori del po­tere in città!

Anche la Lega recentemente sbarcata nel Mezzogiorno dove i valori distrettuali non hanno mai significativamente inciso sulla società locale, adotta, per così dire, una strategia opportunisticamente speculativa che punta a intercettare e raccordare le svariate e fluttuanti reti relazionali sensibili e permeabili all’atavico esercizio del trasformismo e che attraggono gli arrabbiati, i discriminati che certo non scarseggiano al Sud. Anche il Movimento 5 Stelle, per vie diverse, a tutto campo ha ampiamente beneficiato di questi spazi.

Sindacati e organizzazioni datoriali lucani hanno preso atto in questi giorni dell’avvio, con un anno di ritardo, dei lavori per la redazione del piano strategico dell’amministrazione regionale. Un atto fondamentale per definire la «visione di sviluppo (…) di medio – lungo periodo della regione», che però arriva in gravissimo ritardo!

Gli Stati Generali del Lavoro lucani rivendicano «l’urgenza – entro l’autunno – di soluzioni mirate, in grado di provocare effetti altrettanto radicali per fronteggiare in maniera adeguata la delicata fase congiunturale, ma soprattutto per superare in maniera definitiva le debolezze strutturali della Basilicata», aprendo tale programmazione all’impegno corale, per l’assunzione di decisioni strategiche e determinanti per il futuro della regione».

E’ concreto il rischio di una vera e propria polveriera sociale con 380 mila posti di lavoro già andati in fumo, con le previsioni di una ripresa molto più lenta al Mezzogiorno.

Se si continua così ci ritroveremo nel 2021 con un reddito pro capite dei cittadini meridionali sotto la boa del 50% di quello dei cittadini del Centro-Nord. Due “Paesi” che sono già diversi in tutto si separeranno definitivamente. Smetteremo di parlare di due Italie perché almeno una delle due non ci sarà più nel novero delle economie industrializzate. Ovviamente quella che sopravviverà potremmo anche chiamarla Italia, ma diremmo il falso perché sarà poco più che l’appendice meridionale della Germania.

Ma partiamo da noi: quanta consapevolezza di tutto ciò ne ha in Città chi si candida a governarla? E di quella che occorrerà per ‘governare’ non soltanto la nostra piccola città, ma soprattutto la sua vocazione al centro dell’inevitabile macroregione ‘meridiana’ che si sta già costruendo e di cui i più sono ancora ignari? Una dimensione geograficamente, socialmente e politicamente ineludibile per governare i processi socio-ecologici connessi al rilancio del porto di Taranto, del suo retroporto, delle aree centrali tra i mari Tirreno e Adriatico che ci congiungono al Nord Italia e d’Europa.

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