Non che la “Sinistra” materana – parlo per il PCI, chè i socialisti – in maggioranza – erano già accucciati, dalla metà degli anni Sessanta, nelle logiche amministrative clientelari in condominio coi democristiani – abbia mai brillato per coerenza nel perseguimento del fine ultimo della Rivoluzione costituzionale, quella trasformazione attiva del presente politico in funzione dell’avvenire, che non è semplice sviluppo di ciò che era già, ma di ciò che non è ancora: nel Mezzogiorno, ad esempio, un’idea e una pratica di trasformazione autonomista come spinta al ripensamento alle diseguaglianze territoriali e socioeconomiche é sempre stata confinata nel sol dell’avvenire. Un dilemma, in proposito, che non sono mai riuscito a sciogliere davvero è quello della ‘separatezza’ rivoluzionaria – ingraiana, si sarebbe detto a quel tempo – della base del PCI a Matera e nel Mezzogiorno dalla sua Direzione ‘migliorista’ e per niente ‘autonomista’ per le sorti del Sud. Già nel 1976, all’indomani del grande balzo elettorale del partito anche a Matera, prorpio per questo, intuii che eravamo giunti al capolinea: troppa enfasi nell’entusiasmo dirigenziale, sicuramente per consapevolezza di essere entrati anche noi nella ‘stanza dei bottoni’ della macchina statale! Come se fosse sufficiente l’amministrazione dell’esistente, magari con un po’ più di etica; ma certamente a prezzo della politica.
Il bisogno era allora – e lo è ancor oggi, per noi a Matera come in tutto il Paese, per non alzare gli occhi alla situazione geopolitica complessiva – quello di creare un nuovo tipo di Autorità politica (non è forse semplicemente questo una Rivoluzione?), di possedere un’idea rivoluzionaria. E se non la si possiede “bisogna simulare l’esistenza di quest’idea”, ci ricorda Mario Tronti nel suo testamento politico; questo può generare un simulacro di azione rivoluzionaria e può contribuire a mantenerla in vita, anche nascondendo le proprie intenzioni in attesa di tempi migliori, per una soggettività politica da far ri-nascere.
C’erano le condizioni per esaltare figure – un’élite intellettuale che sarebbe potuta diventare “l’intellettuale organico” di gramsciana memoria. Era la prima volta che si eleggeva direttamente il Sindaco – che avrebbe avuto persino il potere di sciogliere il Consiglio, oltre quello di nominare come propri collaboratori gli assessori. Un potere inedito, addirittura abnorme – visti gli esiti successivi – nella tradizione degli enti locali. Prerogative che alludevano appunto ad una nuova élite politica: era la ‘primavera dei sindaci’ – nel Sud la figura più significativa di Antonio Bassolino.
Ma questo fu il grande abbaglio! A Napoli, Bassolino fu davvero espressione di una grande stagione del risveglio campano – intellettuale prima ancora che politico; a Matera, era stata annichilita da tempo la stagione del ‘territorialismo’ che fonda le proprie radici sulla cura dell’identità dei luoghi, dei territori, sullo sviluppo autocentrato, sulla cultura dell’urbano. La DC e i suoi satelliti – taluni reduci di quel passato – ancor oggi, menano vanto delle pratiche di gestione del consenso clientelare scambiandole per grande politica: sull’ultimo numero della rivista MATERA, l’ex sindaco De Ruggieri, dichiarando il falso, s’intesta – a nome di quella maggioranza del tempo – persino l’esito del Concorso internazionale per la riqualificazione dei Sassi e la conservazione dell’Altipiano murgico: non si assegnò il premio perché nessuno dei progetti presentati ne risultò degno, sentenzia; quanta piccineria, quale miserabile cabotaggio! In tutte le prese di posizione di quel Centrosinistra – ancor oggi nelle parole dei sopravvissuti – risulta inesistente il terzo incomodo: il PCI; l’unica forza che ha davvero tentato di ‘sprovincializzare’ la becera amministrazione dell’esistente; riuscendovi a volte – come nel caso di quel Concorso, il cui primo premio non fu assegnato, nonostante la qualità indiscussa della proposta della “riqualificazione essenzialmente abitativa dei rioni Sassi” fosse stata fatta propria dalla Commissione e attuata poi nei due Programmi biennali d’intervento esecutivo di quel progetto, sotto la direzione proprio del vincitore morale del Concorso, il prof. Tommaso Giuralongo e con la collaborazione del suo Gruppo che quel progetto concorrente aveva redatto. Appare evidente – in questo come in tanti altri casi che potrebbero definirsi ‘di scuola’, che quelle Maggioranze comprendevano benissimo la pochezza delle loro politiche e che, per salvarsi l’anima, non avevano (non hanno) altra soluzione che negare l’esistenza stessa dell’opposizione; oppure, travisarne la vicenda politica, umiliandola. E d’altra parte, in quale altro modo avrebbero potuto far fortuna gli onorevoli “vasa, va’ “, l’onorevole sì, sì”, gli eredi dei vecchi podestà e dei notabilotti locali?
È sconvolgente vedere un intero ceto politico, una classe dirigente, partita dalle stesse motivazioni emancipatrici per tutti, arrivare a perdersi nel proprio “particulare” tornaconto: quella d’ispirazione cristiana e laica travolta da ‘Tangentopoli’, quella comunista dall’incapacità soggettiva di cercar ancora un’altra via.
Ma, in quella stagione di sconvolgimenti delle soggettività politiche anche locali, l’idea di affidare ai ‘Progressisti’ il ruolo vicario di trarre fuori dal pantano la Città e lo spirito civico, fu il più grande, ultimo abbaglio!
Eravamo riusciti a neutralizzare le confusioni che si spandevano dall’implosione dei partiti locali della 1^ Repubblica; a ottenere il consenso pieno non soltanto delle giovani generazioni e delle famiglie popolari, ma anche dei moderati e dei ceti che li dirigevano; avevamo un candidato forte, il prof. Mario Manfredi – che a me era stato presentato da Michele Morelli e dai gruppi ambientalisti locali; avevamo un buon Programma elettorale, pur se sbilanciato a favore più dei principi etici che su quelli propriamente politici e socioeconomici. Ma, non fummo capaci di metter su una vera e propria élite dirigente; ci affidammo troppo, sbagliando, al carisma di Mario.
Gli effetti, si videro immediatamente. Ricordo, ancora come fosse ieri, la prima riunione del foltissimo gruppo consiliare della Maggioranza Manfredi; alla mia raccomandazione di stretto raccordo tra Gruppo e Maggioranza politica per praticare gli obiettivi di lungo periodo per sollevare l’autoconsapevolezza della Città, replicò una mezza calzetta consigliera dichiarando che, da quel momento, il gruppo consiliare di maggioranza si riteneva ‘autosufficiente’. Poi, seguì soltanto silenzio, neppure una spiegazione, una giustificazione; neppure dal Sindaco neoeletto. Era penetrato nella nostra politica locale il sangue marcio del populismo. La Politica – sia pure quella essenzialmente amministrativa – era definitivamente collassata.
Mario Manfredi è stato ricordato, nei necrologi dei suoi consiglieri soprattutto, come un eccezionale maestro di etica dell’amministrare. Appunto! Etica, non Politica. Le azioni che mirano alla felicità dell’individuo riguardano l’etica e quelle che sono rivolte alla felicità collettiva, della polis, concernono la politica. E in quella consiliatura di politica ce n’è stata poco o nulla che somigliasse al tentativo di trasformare la nostra comunità!
Poi, dopo Manfredi, diluvio di populismi, cricche di potere e ancora clientele e ricerca del consenso. Altro che destra e sinistra!
Questi ultimi decenni hanno devastato il campo delle forze chiamate a perseguire un’alternativa di sistema. Oggi non si fa storia, si fa soltanto cronaca. La crisi attuale – ci ricordano i pensatori della politica – non è soltanto ecologica, quanto più propriamente antropologica che, dall’alto delle istituzioni si è riflessa nel basso del sociale. Per tornare a praticare democrazia, per battere l’attuale democrazia illiberale, per non cadere nella dittatura della maggioranza, per garantire un sicuro ricambio delle élite, il primo passo è cominciare a ripensare autorità al posto di comando; rinunciare all’insulso ottimismo progressista, che ha tarpato le ali a ogni forte tipo di azione sui processi, per guidarli, orientarli, trasformarli.
Cercare ancora, avrebbe detto Claudio Napoleoni! E praticare il possibile, senza dimenticare gli orizzonti della trasformazione. Anche una militanza come la mia nella Cittadinanzattiva può rappresentare un piccolo passo in quella direzione.
