Come le politiche emergenziali provocano (ad arte?) le disuguaglianze, quelle Nord/Sud comprese.
Mi pare sia di Sir Maynard Keynes la celebre battuta “l’acqua c’è ma il cavallo non beve!”. Pur dando altra acqua – espansione della base monetaria e riduzione dei tassi – al cavallo (Sistema economico), il cavallo non avrebbe bevuto. In questi casi, allora, dovrebbe intervenire lo Stato con coraggiosi programmi di investimento pubblico che, con i proverbiali effetti di moltiplicazione, determinerebbe la crescita del reddito e dell’occupazione. Dovrebbe esser proprio questo l’intento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che destinerebbe al Sud del Paese almeno il 40% degli investimenti previsti: ma è proprio così? Leggo da svariate fonti d’informazione che no, nel Mezzogiorno d’Italia non è quel che sta accadendo; anzi! Quel che sta accadendo ed era ampiamente prevedibile, è – ancora una volta – il ‘ritorno’ al Nord delle risorse finanziarie destinate – in via diretta o indiretta – al Sud e non spese. Certo, anche per responsabilità – antiche e recenti – del sistema di governo meridionale, incapace il più delle volte; ancora prevalentemente parassitario e clientelare; ancora storicamente impedito a farsi soggetto di sviluppo autonomo.
Cosicché, i primi finanziamenti a scadenza – asili nido, università, sanità, pubblica amministrazione – non possono essere “messi a terra” nei territori meridionali, per mancanza di richiesta, di progetti e capacità progettuale. Dove andranno a finire quelle risorse, infine non impiegate nel Sud? Non è difficile prevedere che – come al solito in questi decenni che ci separano dalle politiche efficaci della Cassa del Mezzogiorno degli anni Cinquanta e Sessanta – andranno (stanno già andando) a impinguare gli investimenti destinati alle regioni del Nord-Est e del Nord-Ovest; che nelle crisi successive dell’industria tedesco-centrica della quale risultano essenzialmente subfornitori, pagano i costi più alti e immediati. L’ennesima emergenza!
L’ennesima emergenza, che viene dopo quelle succedutesi dal 2008-2011, del Covid, della crisi climatica, della guerra in Ucraina; che si va trasformando (fors anche con una qualche regia ‘strategica’ e non soltanto per un percorso darwinistico inerziale delle economie ‘marginaliste’ imperanti) in crisi del sistema democratico: populismo, cesarismo, annichilimento delle forme democratiche sostanziali.
Insomma, la strategia dello “Stato di eccezione”, dell’Emergenza come stato ordinario di governo delle nostre società!
E con questa logica si governa anche il nostro Paese. In tal modo, si evita di affrontare le cause che hanno portato alle manifestazioni più gravi della nostra condizione odierna – i dati di questi giorni pubblicati dall’Istat fanno giustizia di ogni ipocrisia circolata in proposito. In particolare, mi pare, viene – con le politiche emergenziali – scongiurato il rischio di riattizzare il conflitto sociale – quello tra gli interessi di chi vive nel e attraverso il lavoro e coloro che dal lavoro traggono il profitto (e che, ad esempio, non concepiscono neppure l’idea di vedersi tassare gli extraprofitti legati alle speculazioni finanziarie, all’aumento dell’inflazione; o dalle rendite stratosferiche da patrimoni non guadagnati).
Il vero motore dello sviluppo anche di quello socio-ecologicamente sostenibile, il ‘sale della terra’ resta il conflitto sociale tra gli interessi dei capitalisti e quelli che vivono intorno al lavoro! Da questo punto di vista, chi tenta di neutralizzarlo (anzi, chi come il PD o i democratici a la Draghi ne prova terrore sacro!), non fa né gli interessi del capitalista né quelli dei mondi del lavoro. Può fare soltanto la mosca cocchiera degli interessi ‘a breve’, della stagnazione e delle recessioni in arrivo.
E non può che essere il conflitto sociale il motore del cambiamento delle condizioni anche tra il Nord e il Sud nel nostro Paese: un conflitto sociale che metta in discussione la crescita da “subfornitore” dell’economia settentrionale, al servizio della egoistica locomotiva ‘mercantilista’ tedesca (con le ricadute socio-ambientali devastanti di questi giorni sotto gli occhi di tutti); che metta in discussione la funzione ‘dipendente’ del Mezzogiorno italiano; e per questo parassitaria, assistita, ormai insostenibile nella condizione di permanente crisi del vecchio modello di crescita nazionale. Il conflitto sociale, un regolatore socio-economico che neppure il volenteroso ex ministro per il Mezzogiorno aveva compreso; o accettato.
Senza conflitto non si esce dalle miopi regole imposte dall’angusto sistema di potere che domina le regioni del Centro-Nord; quello economico che detta anche l’agenda politica alla Lega e al PD. Che, oggi, trova ulteriori escamotages per foraggiare clientes, piccole e medie imprese, carrozzoni politici, gestori di consenso, municipi ‘virtuosi, grazie al furto legalizzato consentito dalla “spesa storica” di quelle contrade rimborsate a pié di lista; che le istituzioni meridionali, per comportamenti virtuosi e inefficienze, avevano contratto in misure di gran lunga inferiore. Quel livello diseguale di “spesa storica”, per colpevole non regolamentazione a tutt’oggi della riforma costituzionale, è diventata il dato di riferimento per la distribuzione diseguale dei livelli della spesa sociale: vale oltre 67 miliardi/anno (oltre 900 miliardi di euro nel periodo considerato), trafugati alle regioni del Mezzogiorno da decenni. Altro che il miracolo degli 87 miliardi assicurati dal PNRR!
L’ultima trovata in ordine di tempo, sempre giustificata in nome dell’Emergenza, è quella dell’emergenza idrica!
Il governo ha decretato lo stato d’emergenza per la siccità sulle regioni del Nord. Escludendo così il Sud e le isole, dove sarebbe ancora più necessario un piano di ammodernamento delle infrastrutture
È arrivato il 6 luglio il voto del Parlamento europeo sulla tassonomia «green». Ancora una volta i decisori politici hanno posto al centro gli interessi economici al posto della salute delle persone e del pianeta: è stata bocciata la mozione che prevedeva di escludere gas e nucleare dagli investimenti sostenibili, una scelta paradossale soprattutto in un momento come questo in cui gli effetti della crisi climatica stanno diventando sempre più devastanti ed evidenti.
In Italia la situazione è sempre più drammatica, alla siccità estrema si alternano fenomeni meteorologici estremi, come grandinate, trombe d’aria e bombe d’acqua, causa della tropicalizzazione del clima, qualcosa con cui saremo costretti a fare i conti nei prossimi anni. Proprio per questo motivo sono necessari interventi strutturali a livello sistemico, sul nostro sistema produttivo, sulle nostre abitudini quotidiane (parlo soprattutto dei paesi occidentali la cui impronta ecologica è quella che pesa di più sul pianeta) per combattere il cambiamento climatico e quindi agire il più rapidamente possibile verso la decarbonizzazione, l’esatto opposto delle scelte prese dal Parlamento europeo.
Allo stesso tempo dobbiamo prepararci ad affrontare gli effetti più devastanti della crisi climatica che andranno ad aumentare, tra queste misure è sicuramente necessario un miglioramento della rete idrica nazionale, sopratutto al sud dove le strutture esistenti sono fatiscenti e dove la perdite sono maggiori come dimostrano i dati del report acqua 2022 dell’Istat.
Nonostante l’evidenza dei dati però, la riunione del Consiglio dei Ministri che ha decretato lo stato d’emergenza per Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte e Veneto, ha dirottato gli investimenti solo per queste regioni, escludendo così l’Italia meridionale e le isole, lì dove sarebbe ancora più necessario un piano di ammodernamento delle infrastrutture idriche nelle zone che da anni vivono le situazioni di maggiore criticità. Da questo quadro emerge una questione di marginalizzazione del meridione mai risolta, di territori di serie A e territori di serie B: la crisi climatica accentua ancora di più le diseguaglianze già presenti nel nostro paese.
Le estati degli ultimi anni sono sempre più torride e meno piovose. Questo, ce lo spiegano gli esperti, quantomeno per quanto riguarda l’Europa occidentale, prendendo due fattori scientifici: da una parte il generale innalzamento globale delle temperature dovuto ai cambiamenti climatici, dall’altra il fenomeno chiamato duble jet states.
Le ondate di calore negli ultimi anni, soprattutto nel periodo estivo, sono sempre più persistenti nel tempo. Oggi un nuovo studio spiega che il fenomeno è dovuto a un cambiamento delle correnti dei venti su larga scala:
Il nostro studio mostra che la crescente persistenza dei double jets spiega circa il 30% dell’andamento delle ondate di caldo in tutta Europa. Tuttavia, se guardiamo solo alla regione più piccola dell’Europa occidentale, spiega quasi il 100%. In questa regione, che coincide con l’uscita della rotta temporalesca proveniente dal Nord Atlantico verso l’Europa, i sistemi meteorologici normalmente provengono dall’Atlantico e quindi hanno un effetto rinfrescante, ma durante gli stati di double jets i sistemi meteorologici vengono deviati verso nord e le ondate di caldo persistenti possono svilupparsi nell’Europa occidentale.
Del resto, lo possiamo osservare con i nostri occhi: nell’ultimo periodo, gli effetti del cambiamento climatico stanno presentando il conto, non solo com’è accaduto pochi giorni fa con il disastro sulla Marmolada, ma anche con una crisi idrica che sta mettendo a dura prova i rendimenti agricoli. Abbiamo visto come perfino il Po, l’arteria fluviale più importante del nord Italia, sia in secca, come non si assisteva da settant’anni, le acque del grande fiume si sono abbassate a un livello tale che l’acqua salata del mare Adriatico è penetrata per 30 chilometri dal delta verso l’interno, come non era mai successo nella storia, devastando le colture e mettendo a repentaglio la vita di numerose specie e quindi intaccando inesorabilmente la biodiversità di questo habitat.
Non è soltanto il bacino del Po a essere compromesso, un po’ in tutte le regioni d’Italia da nord a sud si dà lo stesso fenomeno. La tropicalizzazione del clima però non comporta solo danni causati dalla siccità, ma anche fenomeni meteorologici inattesi, come ad esempio è il caso dei recenti episodi di tempeste, trombe d’aria e grandinate che hanno interessato il Veneto, la Puglia, la Basilicata e il Trentino. Secondo Coldiretti sulla scala nazionale la stima è del 30% in meno di produzione causato dalla siccità estrema e da fenomeni meteorologici estremi, un danno pari a un miliardo di euro.
In tempi di emergenza climatica, risaltano ancora di più i problemi strutturali alla rete idrica nazionale e le diseguaglianze tra nord e sud Italia. Nel recente report Istat sull’acqua il quadro che emerge rispetto allo spreco d’acqua dovuto alle carenze degli impianti idrici è allarmante. Nel 2020 sono andati persi 41 metri cubi al giorno per km di rete nei capoluoghi di provincia/città metropolitana, il 36,2% dell’acqua immessa in rete. Questo quadro si fa ancora più critico al sud e nelle isole, come si legge da report:
Nel 2020, ben 11 Comuni capoluogo di provincia/città metropolitana, localizzati tutti nel Mezzogiorno, hanno fatto ricorso a misure di razionamento nella distribuzione dell’acqua potabile, disponendo la riduzione o sospensione dell’erogazione idrica. Ciò a seguito della forte obsolescenza dell’infrastruttura idrica, dei problemi di qualità dell’acqua per il consumo umano e dei sempre più frequenti episodi di riduzione della portata delle fonti di approvvigionamento, che rendono scarsa o addirittura insufficiente la disponibilità della risorsa idrica in alcune aree del territorio. Rispetto al 2019 il numero di Comuni interessati da misure di razionamento è aumentato di due unità, ma è rimasto sostanzialmente invariato il numero di giorni oggetto di misure emergenziali volte ad assicurare la distribuzione dell’acqua ai cittadini. Misure di razionamento sono state adottate in quasi tutti i capoluoghi della Sicilia (tranne a Messina e Siracusa), in due della Calabria (Reggio di Calabria e Cosenza), in un capoluogo abruzzese (Pescara) e in uno campano (Avellino). Per non parlare dei tanti comuni – anche lucani – interessati da blocchi nell’erogazione per danneggiamenti annosi della rete.
Da questo è derivato un altro problema conseguente, ossia che nelle regioni dove sussistono le maggiori criticità delle reti idriche è aumentata anche la diffidenza dei cittadini rispetto al bere l’acqua del rubinetto. Proprio nel sud Italia la sfiducia è maggiore (il consumo di acqua in bottiglia più alto si registra nelle Isole, 69,7%) e assistiamo a situazioni paradossali, come ad esempio in Sicilia, dove se da una parte l’acqua pubblica viene dispersa dalla rete idrica, dall’altra parte aumenta l’estrazione di acque minerali di 221 mila metri cubi, pari al 43% in un solo anno dal 2018 al 2019.
Da questo possiamo dedurre che l’acqua c’è, semplicemente viene male amministrata dagli enti pubblici che ancora una volta lasciano il terreno spianato agli interessi dei privati che possono lucrare su una situazione di scarsità indotta.
Le potenzialità per aprire un nuovo spazio di lotta che parta soprattutto dai territori marginalizzati del Mezzogiorno ci sono tutte. Se i decisori politici decidono, ancora una volta, di tagliare fuori il sud dalla geografia politica e economica, sta ai movimenti sociali, agli agricoltori e al movimento climatico agire per garantire a tutti e tutte l’accesso a un bene primario come l’acqua. Sicuramente, i primi protagonisti dovrebbero essere proprio le istituzioni nel Mezzogiorno: ma finora sono rimaste in silenzio; se non proprio a volte dimostratesi colluse: specie quelle ‘governate’, come la Basilicata, dalla Leganord e suoi sodali! E tiepidezza (compiacente?) del PD di Bonaccini & compari!
Uno spazio politico che potrebbe connettere zone rurali e centri urbani, dai movimenti climatici giovanili ai comitati per l’acqua pubblica che si sono attivati durante il referendum del 2011, che convergendo con gli agricoltori che come classe di lavoratori saranno i più penalizzati, potrebbero creare una miscela esplosiva in grado di innescare un conflitto sociale che aprirebbe spazi di possibilità per evitare che l’acqua, un bene necessario alla vita, diventi un privilegio di pochi.
E non sembri l’ennesima impotente petizione di principio! Il Presidente del Consiglio e tutto intero l’establishment economico l’hanno già paventato, proprio in questi giorni: nell’imminente autunno e il minaccioso inasprirsi delle crisi, c’è da aspettarsi la rivolta popolare. Chi ne sarà parte politica influente?

A proposito della ventilata crisi del Governo Draghi ad opera del Gruppo M5S al Senato, sacrosanta a mio parere per cento ragioni, che darebbe un chiaro riferimento al disagio e alla sicura reazione delle popolazioni meridionali nelle prossime settimane e mesi nel merito di quanto scritto nell’articolo sopra! E una in più che Conte e il suo Movimento non hanno ancora aggiunto. La trascrivo da un articolo de Il Manifesto di oggi: “C’è una richiesta altrettanto forte che metterebbe in difficoltà i vecchi compagni di cordata e potrebbe far recuperare ai Cinquestelle la simpatia di una parte del Paese, il Mezzogiorno, dove il M5S ha da sempre la sua base elettorale più consistente, ma non solo di quella.
Conte chieda a Draghi di mettere da parte il disegno di legge sull’autonomia differenziata collegato alla legge di bilancio per il triennio 2022-2024 o almeno di non riservargli un iter legislativo che sottrae le norme da approvare al dibattito in parlamento e persino a un eventuale referendum abrogativo.
L’autonomia differenziata nuoce al Sud e mette a serio rischio l’unità nazionale, un bene che dovrebbe interessare gli italiani di tutte le regioni. Su questo punto l’eventuale rottura sarebbe comprensibile a chiunque e avrebbe il merito di accendere i riflettori su una questione di enorme rilevanza per il Paese, di cui si continua a parlare poco e a dibattere per lo più tra specialisti. Su questo punto si può andare sulle barricate anche con la pochette.” E forse si sveglierebbe anche la “vogliuzza” di Sinistra!