Le narrazioni evenemenziali del 2019 erano e restano patetiche giustificazioni di un fallimento storico; le beghe di palazzo che hanno pugnalato Bennardi, soltanto massaggi del personale ego e difesa di interessi dei 17 golpisti!
Queste cosiddette elites nostrane – vuoi quelle della ‘politica’, vuoi quelle ‘culturali’ che in queste settimane fanno facile retorica sui ‘Dieci anni da Matera 2019’ – tutte prese a massaggiare il proprio ego e a difendere i propri interessi – non hanno alcun pudore giacché difetta loro l’esame di realtà, quel processo che coinvolge la valutazione critica della percezione individuale rispetto agli aspetti oggettivi della realtà.
Ho letto, in queste ore della caduta del Sindaco Bennardi, dichiarazioni farneticanti dei 17 ‘consiglieri’ incapaci di mandarlo a casa col voto in consiglio comunale – sede naturale della politica locale; capacissimi – alla bisogna – di accoltellarlo rifugiandosi in uno studio notarile e con la guardia del corpo della Destra a vigilare sotto il portone … Probabilmente, regista del golpe quel simulacro di PD materano riottoso al veto del suo ‘nazionale’, arrivato in limine mortis.
Possiamo avanzare qualche ipotesi? Di certo, ma nessuna fra esse ha contiguità con rivendicazioni di maggior democrazia, o con una qualche idea di futuro per la nostra Cittadina! Per almeno una ragione facilmente intuitiva: non s’inventa la sostanziale partecipazione democratica né tantomeno un’idea concreta di futuro, scoprendole strumentalmente alla scadenza elettorale! A meno che, per democrazia non s’intenda soprattutto la protezione degli interessi particolaristici e il ‘presentismo’ di chi non ha capacità di pensarlo il futuro e men che meno approntarlo per quanto sia possibile. Democrazia sostanziale e idee per il futuro sono scommesse che si giocano nel tempo medio-lungo e con orizzonti che abbracciano territori a scale sempre più larghe: dal vicinato alla Città, al territorio che la ricomprende; alla regione meridiana (Franco Cassano) cui tutte le nostre comunità si richiamano, senza miserabili egoismi perdenti, che in queste settimane si organizzano in improbabili referendum per andarcene in Puglia: per fare che? E perché dovrebbero aprirci le porte? Di nuovo e al di là delle facili provocazioni, torniamo alle domande appena poste!
Tuttavia, al di là delle messinscena ad uso dei “non addetti ai lavori”, quanto detto non impedisce che una lotta reale esista davvero, sia all’interno dei singoli partiti, sia tra partiti diversi. Nel primo caso, venuto a cessare il conflitto in cui si confrontavano diversi progetti aventi carattere complessivo, lo scontro per la leadership si configura in base a discrimini che non hanno nulla a che fare con programmi o progetti. Emerge piuttosto in primo piano la generica contrapposizione tra vecchi e giovani o una semplice invocazione del cambiamento: per realizzare cosa non si sa, per andare verso un dove che non viene indicato; l’importante è cambiare, eliminare il “vecchio” e immettere il nuovo colorato di parole generiche sulle quali non è difficile mettere tutti d’accordo; per cui lo scontro reale è quello tra apparati, gruppi di potere interni, burocrazie e rendite di posizione. (cui sicuramente conviene un Commissario con delega decisionale: ex area Barilla, decine di richieste di Varianti nel periurbano, gestione dei fondi PNRR, ecc.).
Nel secondo caso – quando si ha una contrapposizione tra partiti o coalizioni tra loro alternative – la conquista del consenso non passa attraverso la gramsciana “egemonia”, ovvero la capacità di far diventare universale e condivisa una visione della società che, pur scaturendo da interessi particolari, risponda anche all’esigenza di mettersi al servizio dell’interesse generale. Assume invece i toni e la strategia di una operazione commerciale, la cui ragione sociale è tracciata da parole d’ordine identitarie, da bandiere sventolate, ma che svaniscono quando i vincoli esterni e “la voce del padrone” si impone, indifferente a chi pro tempore occupa il potere, pronta ad abbaiare allorché ci si discosti dagli argini prefissati della “decenza politica”.
È questa complessiva trasformazione del modo di concepire la politica e il ruolo del ceto che la rappresenta ad essere all’origine dei fenomeni corruttivi che abbiamo sotto gli occhi, anche in Città. Il personale politico che forma le nuove aggregazioni e i sempre nascenti movimenti politici non ha una storia comune, non ha tradizione, non ha cultura condivisa, non ha un gruppo sociale di riferimento né un territorio da rappresentare. I partiti maggiori attualmente esistenti (ivi compreso il Pd) sono ormai aggregati di persone che scelgono di “scendere in politica” con lo stesso spirito di chi decide di mettersi nel commercio di auto sportive, nella speranza di azzeccare l’investimento giusto, ovvero il partito nel quale il proprio “capitale umano” possa meglio fruttificare, fornendo le aspettate gratificazioni (che assai spesso non sono di natura morale). E ciò è tanto più vero quanto più la politica approda ai livelli amministrativi (regionali e comunali), dove le grandi opzioni che ancora vincolano lo scenario nazionale (atlantismo, americanismo, europeismo ecc.) tendono a divenire flebili, per scomparire nella pratica amministrativa e nella spartizione (sembra che uno degli ultimi rimpasti nella Giunta materana sia stato necessitato per dare un reddito ad un cliente disoccupato!).
Bisogna allora rassegnarsi a convivere con la celebrata “fine delle ideologie”, oppure è ancora possibile trovare lo spazio per pensare la politica in modo diverso? Solo rispondendo a questa domanda è possibile dare di nuovo senso alla rappresentanza politica, attualmente basata su flebili legami, e così cercare di avviare a soluzione la crisi della coscienza civile, morale e sociale dell’Italia d’oggi, facendo la nostra parte nella nostra periferica cittadina.
Spesso continuiamo – io per primo, se non altro per ragioni anagrafiche – a ragionare come se nulla fosse avvenuto: il nostro lessico non si è ancora adattato alla nuova realtà e continua ad attribuire a partiti e ceto politico caratteristiche, comportamenti normativi ed etici di un’età ormai tramontata, idonei a descrivere passate configurazioni istituzionali, non più attuali se non per una mera, formale sopravvivenza, svuotata dei contenuti che prima le avevano alimentate. Ecco dunque la vera differenza tra prima e oggi: la fine del “primato della politica” – decretata sulla base di nobili e a prima vista condivisibili obiettivi – non solo non ha portato alla riduzione del potere dei partiti e alla diminuzione della corruzione, ma ha comportato la tacita rinegoziazione di un nuovo “patto sociale” Si viene a riproporre una sorta di alleanza simile a quella da Salvemini diagnosticata a fine Ottocento proprio per il Mezzogiorno; solo che questa volta gli attori non sono i latifondisti e la piccola borghesia professionale – i primi che si prendono il parlamento, i secondi liberi di fare i loro interessi a livello locale – bensì il capitale finanziario che si impossessa del parlamento attraverso partiti politici svuotati di rappresentanza popolare e postisi a suo servizio e una classe politica, fatta sempre in gran parte dalla borghesia professionale, ma con ampie forme di democratizzazione verso altri ceti sociali, che è libera di saccheggiare e gestire a proprio vantaggio la ricchezza sociale della quale si appropria attraverso il drenaggio fiscale. E i partiti facile preda per potentati locali e per scalatori in grado di portare pacchetti di voti utili.
Analogamente a quanto avveniva nell’età del tramonto della cultura classica, oggi v’è bisogno di un leader a cui affidarsi, di una parola in cui confidare, di una prospettiva semplice, immediata, di breve durata, di una salvezza a portata di mano. Oggi non bisogna pensare, ma credere: «da quando si è iniziato a celebrare il funerale delle grandi aspirazioni a cambiare il mondo, delle ideologie, dei progetti – magari ingenui – di rifondare da capo a piedi una società, è apparso chiaro che la politica si sarebbe ridotta, per chi intendeva praticarla a tempo pieno, a carrierismo».
Eppure, contro l’apparente imprescindibilità dei vincoli derivanti dal mercato e dalla comunità internazionale è necessario – se si vuole trasformare questo incolore presente – ricominciare a pensare in grande, restituire spessore alle nostre vedute, avere il coraggio di osare, ridando vigore ed energia al pensiero che in passato si esprimeva nelle grandi narrazioni e nelle utopie: «Una mappa del mondo che non comprende il paese dell’Utopia è indegna finanche di uno sguardo, perché ignora il solo paese al quale l’Umanità approda continuamente. E quando l’Umanità vi getta le ancore, sta in vedetta, e scorgendo un paese migliore, di nuovo fa vela.».
“Occorrerebbe un “Laboratorio urbano”!”, ho scritto ad alcuni amici interessati a riprendere un ragionamento sulla nostra cittadina. Sarebbe utile, anzitutto, per ripartire il lavoro tra quanti hanno come obiettivo la scadenza elettorale e quanti – come me – quella di approdare, finalmente a una più dignitosa comprensione di massa della nostra cittadina e dei territori. Ce la prendiamo con gli ‘altri’, ma non siamo ancora in grado di darci uno straccio di analisi approssimata della produzione territoriale che ci riguarda! Eppur, siamo ben consapevoli che da lì non si sfugge, ormai; soprattutto dopo il crollo del mito sviluppista anche nel Mezzogiorno. Quel lavoro tornerebbe prezioso, sia all’istituzione municipale – cominciamo da lì – sia che venisse affidata all’impegno di chi vorrà spendersi nel Laboratorio con incisività ed efficacia, sia per il lavoro di lunga lena necessario per vedere i primi risultati sia conoscitivi che di partecipazione attiva della comunità materana. Quanto ci tornerebbero indispensabili gli aggiornamenti dei contributi di Perri e Cuoco, di Properzi, ad esempio; quanto la rilettura critica delle indagini che hanno avuto come oggetto socioeconomico e l’identità culturale della nostra cittadina!
Il Laboratorio, poi, sarebbe capace di far comunicare produttivamente tutti i soggetti attivi – dal sistema d’impresa a quello propriamente territoriale; a quello ‘civico’ oggi sempre più insofferente ai riti burocratico-istituzionali – ma, forse più incuriosito alla partecipazione attiva.
E penso che avere a interesse principale l’idea di comunità e dell’unicità del territorio e del suo principio, dopo il ridimensionamento dell’industrialismo ‘di massa’ – anche tecnologico e nella sua distribuzione geografica oggi – e la piena deflagrazione delle vecchie categorie politiche e dei soggetti che l’hanno interpretate nel ‘900, rappresenti una nuova modalità – magari necessitata, forse più includente – per tentare di fuoruscire dal sentimento e dai segnali della catastrofe umanitaria. Non scompaiono i conflitti – il sale delle relazioni; diventa più stringente la battaglia comune contro un feroce destino!
Collochiamoci in una città piccola come Matera, al centro del distretto industriale del salotto, o nel sistema produttivo delle aree artigianali; o in quelli ancora informali del turismo, dell’artigianato di qualità, della produzione del cibo (insomma, per tutti quelli per cui richiediamo il marchio DOM – la C di ‘controllata’, modificata con la M di Materana); della ‘riproduzione sociale’ (cura del territorio e delle persone). Immaginiamo di chiamare a raccolta tutti i cultori di scienze sociali, storici, economisti, sociologi, urbanisti, e del sistema di conoscenze e saperi istituzionali e non, del territorio. Formuliamo, con l’aiuto di tutti – e non è davvero uno scherzo – un mega-progetto di esplorazione in profondità del sistema produttivo locale – distretto o altro – di cui fa parte la nostra Università: l’Osservatorio territoriale materano (avrebbe dovuto rappresentare – già prima – il cuore della candidatura di Matera a capitale europea della cultura. Invece, si è voluto perderla quell’occasione!). Se la cosa venisse gestita con accortezza dal Municipio – nella sua veste di ente generale del territorio, potrebbe raccogliere molte adesioni. Ne verrebbe fuori un rapporto di ricerca che accompagnerebbe le istituzioni sociali e pubbliche nel percorso di trasformazione dalle contingenze al Progetto locale di sviluppo.
Senza un lavoro di questo genere – improbo, duro e lungo -, che ci consenta di entrare nei mille sottoscala della realtà, dove le pieghe e le piaghe della nostra storia si fissano nel carattere delle nostre popolazioni, si corre il rischio di smantellare definitivamente costruzioni sociali che pure hanno retto finora.
Ma, l’alternativa territorialista a un modello di sviluppo distruttivo per il contesto di vita si basa anche sulla sperimentazione e sulla messa in rete di nuove forme di sviluppo locale “dal basso”, fondate sulla valorizzazione del patrimonio territoriale quale bene comune, accomunate dalla messa in pratica del “fare comune”, della gestione e della cura volutamente non competitiva delle risorse locali. Diventa fondamentale, perciò, interrogarsi sui rapporti che la democrazia rappresentativa possa e debba instaurare con le trasformazioni sociali e materiali sperimentate localmente, per portarle su scala più ampia e favorire l’autogoverno dei luoghi, finalmente regolamentandolo.
