E se alla fine, la comunità materana (intesa in senso lato e comprendente anche quelle altamurane, gravinesi, santeramane) non deciderà che il rischio – ormai quasi irreversibile – di chiusura, o di definitivo snaturamento dell’ultima fabbrica ancora in piedi dal 1968, deve essere assunto come cosa che ci riguarda tutti e non soltanto i lavoratori (quei meno di 80 che ne restano ormai), non può lasciarlo soltanto sulle spalle dei loro sindacati metalmeccanici, o della sola Confindustria e dei governi romani. Se le istituzioni locali non decideranno, finalmente, di assumersi l’onere della rappresentanza generale degli interessi del territorio che dovrebbero governare, allora sì che anche l’ultima occasione per ri-appropriarsi coralmente del destino autenticamente industriale di queste nostre terre andrà perduto.
Allo stato dell’arte, quel che è facile dedurre è che i lavoratori iper-specializzati della Ferrosud, dal costruire carrozze ferroviarie, saranno ridotti al mestiere degli ‘sfasciacarrozze’!
Sarebbe lunga da raccontare la storia di questo amaro e becero ‘destino’ e non sarebbe neppure utile scaricare tutte le responsabilità sulle istituzioni (pubbliche, politiche o sindacali) ormai auto-screditatesi perché prese nella rincorsa al ribasso delle suscettività territoriali – in questo caso industriali – di nostri luoghi nel Sud. Quel che è in discussione, in realtà, è il modello neoliberista applicato al Mezzogiorno.
E le critiche rivolte al modello neoliberista rafforzano la necessità di un drastico cambiamento (policy change) delle diverse politiche territoriali e urbane. L’imperativo ormai della sostenibilità dello sviluppo urbano e territoriale implica soprattutto una trasformazione delle relazioni sociali in senso democratico, una diversa concezione del valore della partecipazione civica nelle politiche territoriali e l’individuazione delle condizioni economiche, simboliche e spaziali che favoriscono la piena cittadinanza dei diversi gruppi e strati sociali. È richiesta una nuova riflessività socio-istituzionale in grado di trasformare le modalità di produzione dei beni e/o servizi pubblici e collettivi nella città, nel territorio, massimizzando le sinergie tra le risorse disponibili, sfruttando l’intelligenza diffusa nella società locale e sperimentando nuove e più adeguate configurazioni della sfera pubblica, anzitutto, per restituirle quella credibilità democratica perduta da decenni e decenni. La semplice previsione di spazi di dialogo tra istituzioni e cittadini non sembra più sufficiente rispetto all’innovazione sostanziale del trattamento delle sfide urbane, se l’amministrazione pubblica non li accompagna all’esercizio del ruolo di facilitatore del potenziale di capacitazione insito nei processi già esistenti, attivati da quelle componenti della società civile che, con forme di auto-organizzazione, intercettano bisogni rimasti insoddisfatti.
Ma, almeno per ora, non sembra che – dall’alto – si sappia, o si voglia, far tesoro di esperienze altamente simboliche, qual è ad esempio quella della RiMaflow – la fabbrica recuperata di Trezzano sul Naviglio (alle porte di Milano) – che è diventata una nuova cittadella operaia. Perché è stata occupata quella fabbrica? Anzitutto, per un bisogno: recuperare un lavoro e un reddito. “Una volta che i padroni decidono di abbandonare la fabbrica e di scappare, quello che tu ti trovi lì davanti è una fabbrica magari con macchinari, con ancora le materie prime su cui lavorare e così via. La prima cosa, la più spontanea che può avvenire, è proprio utilizzare questi materiali, questo luogo e il tuo sapere: sai far andare quelle macchine, sai fare quelle attività o attività analoghe con quei macchinari, e quindi usa quello. La riappropriazione è sotto mano. Occupare una fabbrica è una possibilità concreta”.
Il problema della riappropriazione poi, apre immediatamente quello della legittimità e della legalità dell’attività avviata. RiMaflow sta ancora combattendo una battaglia con la proprietà dei capannoni occupati: ma la valenza sociale del “recupero” salta immediatamente agli occhi e non può essere regolata semplicemente come fosse un fatto di ordine pubblico o di ripristino della proprietà privata, benché questo sia il riflesso condizionato primario di istituzioni, giornali e poteri vari. Quel che torna di attualità è anche la funzione sociale della proprietà nella Costituzione (il secondo comma dell’articolo 42 così recita: “I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”).
Un’altra esperienza che va nella direzione mutualistica, è quella di Officine Zero – già della Rail Service Italia, azienda di manutenzione di vagoni ferroviari nella zona orientale di Roma: attraverso progetti successivi, si riattivano – dapprima gli spazi lavorativi e la mensa; poi parte un progetto di un polo del riuso e del riciclo; si entra in relazione con il network internazionale delle fabbriche recuperate. Apre il coworking. I lavoratori partecipano inoltre a una lunga serie di mobilitazioni cittadine sul lavoro e sul diritto alla città. Alla fine, quei lavoratori e la loro azienda si impongono nel settore della permacoltura, applicando i metodi dell’economia circolare e collaborativa, mettendo a disposizione spazi, strumenti produttivi e servizi adatti a sviluppare le idee e condividere le competenze.
Mi si obietterà che la situazione della proprietà di Ferrosud è assai più ingarbugliata e precaria; che altrettanto precario, se non obsoleto è il macchinario. E lo sono ormai anche i processi produttivi. E che, ovviamente, bisogna parlare con cognizione di causa, perché stiamo parlando del futuro di quei lavoratori e di un’attività! Ci mancherebbe altro!
Quel che voglio portare all’attenzione, di questa vicenda, è in realtà il tema della democrazia diretta e partecipata, l’unico che possa offrire una risposta positiva alla crisi in corso, soprattutto in tante aree del Sud e dell’Appennino. La democrazia diretta è la strada che occorre tornare a battere di nuovo – dopo i primi esperimenti condotti dal Movimento operaio, con i Consigli, le Leghe e le Cooperative che tornino alla funzione mutualistica e di autogoverno originaria – per superare l’impasse post democratica. L’ambizione di un processo di autogestione non si restringe all’obiettivo di occupare e recuperare una singola fabbrica, un centro di mutuo soccorso, un terreno da coltivare, una singola attività economica benché da questo oggi possa ripartire. La progressione che può offrire una prospettiva politica al mutualismo conflittuale è quella che porta all’ambizione di una democrazia nuova fondata sull’autogoverno.
Un disegno che, massima delle contraddizioni e delle “sciagure”, inizia a formarsi al di qua della società capitalistica, dentro i suoi meccanismi di funzionamento, le sue leggi economiche e quindi le sue costrizioni. Non c’è dubbio che qui risieda la massima delle difficoltà e per alcuni l’impossibilità di un progetto di produzione autogestita e di cooperativa improntata al mutualismo conflittuale. Ma, strumenti di “contro potere”, anomalie di sistema, luoghi di sperimentazione di economie alternative costituiscono una risorsa preziosa per progettare un futuro nuovo.
Quel che occorre, da subito, però, è una sorta di capovolgimento dello sguardo, rilanciare l’idea di un Progetto locale di ‘sviluppo’. D’altra parte, non è che manchino qui da noi i distretti industriali, le ‘zone’ artigianali, i nuovi distretti del Turismo, le filiere agricole, quelli culturali, ecc.: luoghi iper specializzati (per la materia, per gli operatori e per il processo) che del progetto locale sono pezzi decisivi. Quel che manca ancora è una cultura complessiva, una sorta di convergenza, una coralità produttiva insomma, tra la forma mentis dominante e la struttura produttiva dei luoghi. E’ il luogo a educare la comunità; è il patrimonio di saperi, culture, esperienze, tradizioni a fornire alle persone che vivono in un certo luogo la direzione da percorrere per la crescita qualitativa, per il proprio arricchimento continuo nel tempo. Quel che difetta è la coscienza dei luoghi!
Il problema che bisognerebbe mettere a fuoco è quello, a lunga gittata, di come traghettare il nucleo centrale della nostra industria manifatturiera oltre la crisi. Ma questa preoccupazione vale anche per il Turismo, l’Agricoltura e il cibo, l’Edilizia e l’urbanistica, il Territorio e la Ricerca.
Più in generale, perché Matera (ma la domanda deve esser rivolta al Mezzogiorno tutto) è rimasta indietro? A questo grande interrogativo, bisogna aver il coraggio di rispondere – al di là di quelle classiche, di tipo accusatorio o assolutorio verso i materani (o i meridionali) – con una risposta che è stata chiamata «socio-istituzionale»: dove la disuguaglianza – nel reddito, ma anche nell’accesso alla cultura – è maggiore, prevalgono istituzioni di tipo estrattivo, ed è questo il caso del nostro Mezzogiorno, della Basilicata, di Matera. E così si rafforzano i meccanismi di esclusione sociale e quindi la disuguaglianza, i vincoli di dipendenza dal sentiero che tendono a far rimanere un territorio o uno stato bloccato in un determinato assetto, socio-economico e istituzionale.
Anche per questo, diventa urgente puntare sugli istituti di autogoverno e autogestione! Per questo, la vicenda della Ferrosud ci riguarda tutti!
