Negli USA ha vinto la rabbia. I segnali c’erano tutti. Erano segnali provenienti dalla folla di coloro che da troppo tempo vivono nell’incertezza economica, stufi di promesse tradite. Chi è deluso dal sistema nutre un desiderio di caos. «Il paradosso è che la gente, stufa del sistema politico, non sostiene Trump nonostante il suo comportamento e le sue condanne, ma lo sostiene proprio per il suo comportamento e le sue condanne» spiega uno studioso danese. I più deboli, progressivamente impoveriti a tutto vantaggio della minoranza già ricca della popolazione – spostando su di lui il proprio consenso – hanno espresso la loro rabbia e riposto nella sua persona la speranza che in quanto pazzo, trasgressore e sovversivo egli possa cambiare lo stato delle cose in loro favore. È, insomma, la lotta contro il “nemico interno”, cioè il contesto politico che da decenni a questa parte trasferisce la ricchezza del Paese dai molti ai pochi.
E gli stessi tratti della personalità di Trump, la sua insofferenza cioè per le istituzioni democratiche nonché la sua comprovata capacità eversiva del sistema, hanno convinto anche e soprattutto i grandi poteri economici – quelli che lo scorso anno hanno sovvenzionato la campagna elettorale per un totale di 16 miliardi di dollari, di cui il 50% proveniente solamente dall’1% dei donatori – a puntare sul suo nome. L’obiettivo in questo caso è però opposto a quello avuto di mira dalla classe lavoratrice – la working class, dai neri, dagli ispanici, dai meno istruiti, ossia dalla gran parte di coloro che, stando nella parte bassa – anzi bassissima – della fascia di ricchezza nazionale, lo hanno votato.
Il piano che i super poteri hanno in programma per gli Stati Uniti è, infatti, la distruzione del capitalismo dal volto umano come dai tempi di Franklin Delano Roosevelt lo si conosce, per ritornare a quel capitalismo mercantilista, quello dei Robber Barons della fine dell’Ottocento/inizi del Novecento, che in termini di diseguaglianze è già rinato.
Il progetto consiste nell’accentrare il potere in un esecutivo forte – ciò che Trump, aiutato da una Corte Suprema ormai estremamente politicizzata a suo favore, ha ampiamento dimostrato di saper fare – per ridurre e possibilmente eliminare quelle agenzie amministrative federali deputato a limitare gli eccessi delle grandi società – le corporation – attraverso opportune regolamentazioni e a redistribuire parte della ricchezza nazionale attraverso l’implementazione delle misure dello stato sociale. Oggi, però, si tratta di dare il colpo di grazia da un canto al welfare e dall’altro ai limiti imposti alle corporation, i cui emissari miliardari stanno entrando a far parte della nuova amministrazione Trump.
Ma, attenti: de te fabula narratur! Non vi sembra che le condizioni per tale esito siano in larga parte in avanzata incubazione in buona parte d’Europa e – per quanto purtroppo ci riguarda – nell’Italietta meloniana? Con l’aggravante che, avendo noi poco e niente rispetto a Trump, quel tentativo quì sarebbe soltanto farsa tragica!
E ho più di un dubbio sulla capacità dei democratici nostrani di uscire dalla banalità degli slogan, per approntare un’efficace transizione socioecologica.
