giovedì, 27 Marzo , 2025
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Storie di confino: l’udinese che si impiccò

 

Si sa che con il tempo la percezione dei fenomeni storici cambia e oggi la vulgata per cui “parlar male” del duce o cantare Bandiera Rossa durante il ventennio portava a guai assai seri, è assai sbiadita se non del tutto ignota alle nuove generazioni. Peccato, perché proprio nello spettegolare del Duce e famiglia, la fantasia degli italiani si era scatenata e in molti fascicoli di polizia si trovano episodi, a modo loro, divertenti. Come,  ad esempio, quello della donna che in drogheria chiede a gran voce tre etti della “fava di Mussolini” suscitando l’ilarità dei più e il rapportino dell’immancabile delatore.                                                Tuttavia, è l’incredibile numero di condannati, anche a gruppi di una decina per volta, per aver intonato, in osteria o in altre situazioni conviviali e spesso in stato di ebbrezza, Bandiera Rossa o altri canti sovversivi, che la dice lunga sull’ottusa crudeltà del regime. Quanti furono gli italiani che ebbero l’esistenza rovinata da un momento di incosciente spensieratezza? Per tutti coloro che in seguito a fatti del genere furono confinati nei nostri paesi, valga la vicenda di Angelo Feruglio, un quarantasettenne di un paesino di montagna dell’Udinese.

Angelo si era fatta tutta la guerra 1915-18 e si era congedato con il grado di caporale maggiore. Una benemerenza che non gli servirà a nulla poiché  nel dopoguerra aveva capeggiato i socialisti del suo paese. Con l’avvento dei fascisti al potere non aveva più svolto attività politica, ma, pur non avendo dato luogo a richiami, si riteneva che fosse rimasto fedele alle vecchie idee.                                                                            Per questi precedenti e per il fatto di gestire con la moglie una trattoria, sapeva di essere tenuto sotto sorveglianza. Ciò nonostante, volle festeggiare a modo suo la notte di Natale del 1936  e , sicuro dell’amicizia degli avventori presenti, sintonizzò l’apparecchio radiofonico che troneggiava nel suo locale su Radio Barcellona, un’emittente repubblicana, per sentire da una  campana amica come andavano le cose nella Spagna dilaniata dalla guerra civile. Le notizie dovevano essere state buone e a fine trasmissione, sull’onda dell’entusiasmo, tutti s’erano messi a cantare Bandiera Rossa.                                        Un’imprudenza poiché non tutti quelli che affollavano la trattoria quella notte gli erano amici come credeva. Qualcuno, infatti, l’aveva denunziato e un mese dopo era stato condannato a tre anni di confino in quanto “elemento pericoloso per l’ordine nazionale”. Con destinazione Stigliano dove arriverà, viaggiando una settimana, a metà febbraio del 1937. Ci arriva moralmente distrutto e dalle frequenti lettere alla moglie risulta che non riesce a rassegnarsi a quel provvedimento così eccessivo quanto e inaspettato. Lei lo incoraggia invitandolo a cercare conforto nella religione.  Lo sradicamento dal suo ambiente e le preoccupazioni per i quattro figlioletti e la moglie rimasti senza la sua guida lo tormentano. Tanto più che, abituato a lavorare assiduamente, a Stigliano non trova da occuparsi. Si fa una colpa anche di questo e alla moglie scrive che lavora ma non ha ancora ricevuto la paga per cui chiede di mandargli cento lire. Lei sospetta che le cose stiano diversamente e chiede di dirle la verità. Per dargli speranza riferisce anche che un loro conoscente le ha raccontato che al confino guadagnava 17 lire al giorno e gli era dispiaciuto tornare a casa. Inutilmente. Angelo a Stigliano non ha stretto rapporti con nessuno. Ogni tanto lo si vede passeggiare a occhi bassi, qualche volta parla da solo, delle altre si ferma a fissare non si sa cosa. Se per strada vede dei bambini li avvicina, regala loro qualche soldino e piangendo dice “Poveri figli miei”. Va spesso in chiesa e prega con fervore, ma neppure là riceve conforto da alcuno. Lasciato solo con la sua angoscia, né il podestà, un medico, né il parroco che lo vede tutti i giorni, ne segnalano le condizioni, lo aiutano  a trovare un lavoro, gli consigliano di chiedere la grazia a quel duce della cui generosità tanto si parla. Ma sulla particolare ignavia di quelle autorità c’è anche la testimonianza di un altro confinato. Un veneziano appena trasferito da Ventotene che scrivendo alla madre dice che a Stigliano si sarebbe anche trovato bene «se la posizione dei confinati fosse maggiormente tenuta in considerazione e trattata con miglior predisposizione e volontà. Per quanto riguarda il lavoro e malgrado il mio interessamento assoluto, sembra che per noi confinati, in omaggio alla legge che stabilisce l’obbligo di darsi a stabile lavoro, sia un mito». In questo ambiente di desolazione, Angelo crolla e il 13 maggio, a meno di tre mesi dall’arrivo, la padrona di casa lo trova appeso a una corda fissata alla volta della stamberga che gli aveva affittato. Un carabiniere lo libera e lo mette sul letto sperando di poterlo ancora salvare, ma il medico-podestà non potrà che constatarne la morte per strangolamento.  Il suicida non ha lasciato nessuno scritto, ma i motivi del suo gesto sono chiari a tutti. Scrivendo a un amico e alla moglie vi aveva in un certo senso accennato. Costei nell’ultima lettera – scritta nello stesso giorno del suicidio – parlava delle “brute condizioni” della famiglia e dell’impossibilità di mandargli ancora denaro. Anzi, avendo saputo che da quelle parti producono dell’ottimo olio, chiede di mandargliene una damigiana. Vorrebbe inoltre sapere se deve restare nel paesino dove gestisce la trattoria almeno fino a quando i bambini avranno concluso l’anno scolastico e lei avrà incassato i crediti o no. E della da cui tutto era cominciato cosa doveva fare? Dopo il sequestro «Il radio, me lo anno consegnato a me che lo vendi, il dopo lavoro di Pagnano mi dano solo 600 lire ma dimi se vuoi così o pure abbiamo da tenerlo noi». Reprobo per il regime, non lo è per chi lo conosce – “ saluti di tanti che ti ricordano” gli scrive – e per la moglie che continua ad affidargli ogni decisione sul futuro della famiglia. Commentando l’accaduto, il prefetto insiste sull’emotività dell’uomo: «Sensibilissimo d’animo non ebbe la forza di rassegnarsi e il pensiero gli volava incessantemente ai famigliari ed in specie ai quattro suoi figlioli che amava teneramente e che non poteva soccorrere essendo privo di lavoro.            La tenerezza dei figli era tale che speso cadeva in emozione proferendo l’espressione: poveri figli miei! La depressione fisica ed il perturbamento morale in cui trovavasi hanno influito non poco sul suo stato comatoso, per cui manifestatosi un eccitamento sulle condizioni mentali, in un momento di estremo sconforto, impulsivamente pose fine alla sua esistenza impiccandosi».

                              ( Il campanile della Chiesa madre di Stigliano  )                                  Insomma, un esame delle conseguenze del confino su una personalità resa fragile dallo sradicamento dal suo ambiente e dall’allontanamento degli affetti. Eppure, il regime  che sottoponeva a controllo medico le condizioni fisiche dei confinandi -un controllo all’acqua di rose- non aveva neppure preso in considerazione il fatto che in alcuni soggetti i mali dell’anima fossero più devastanti di quelli del corpo. Meno ipocrita di quella prefettizia, è la relazione della PS che fra le cause dell’accaduto indica lo sconforto provocato «dalla mancanza di alimentazione e di assistenza poiché è stato accertato che la [padrona di casa] mancava a tali doveri pur essendo retribuita con sei lire al giorno». Chi scrive ha letto centinaia di fascicoli di confinati e può affermare che i lucani si mostrarono in genere comprensivi, accoglienti e generosi verso i confinati, ma non mancò qualche, raro, speculatore. La più spregevole fu proprio la padrona di casa di Angelo alla quale, malgrado tutto, fu liquidato il dovuto anche per l’ultimo mese. Sei lire al giorno mentre addosso al suicida non sarà trovato neanche un centesimo. Nota: il brano è stato tratto, e leggermente modificato, dal mio «Adelmo e gli altri. Confinati omosessuali in Lucania», pagg. 86-89, (ombrecorte Verona, 2019).

Libretto di soggiorno dei confinati

Probabilmente nelle nostre scuole non sarebbe stato consentito parlare di questo episodio poiché l’attuale ministro dell’istruzione e del merito (sic!) ha diramato per il Giorno della Memoria una circolare nella quale si legge:[…]La celebrazione del Giorno della Memoria, secondo la legge 20 luglio 2000, mira dunque,  a distanza di ottanta anni dall’abbattimento dei cancelli dei campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau, a preservare il ricordo della “Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”, in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa in modo che simili eventi non possano mai più accadere.              Come è noto, il Ministero dell’istruzione e del merito è da anni impegnato nel mantenere vivo il ricordo su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti, attraverso incontri, momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, attività di formazione e adozione di bandi di concorso,  affinché, alla luce della piena conoscenza degli eventi storici, le giovani generazioni possano interiorizzarne il valore anche ai fini della “costruzione” della propria coscienza sociale. […] Viene da chiedersi: bisogna ricordare solo la tragedia del popolo ebraico e quella dei nostri militari (oltre 500.000) e politici deportati nei campi nazisti e magari mettere in evidenza i fascisti “buoni” (coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati)? E gli zingari, gli appartenenti a culti non ammessi, gli omosessuali e i confinati in genere, non sono degni di memoria secondo i governanti di destra-destra? Vale a dire secondo gli eredi spirituali dei governi che provocarono quelle tragedie e che oggi si atteggiano a celebranti dei riti che ne commemorano le vittime?

 

Cristoforo Magistro
Cristoforo Magistro
(Montescaglioso 1949), è laureato in lettere e ha insegnato Italiano e Storia nei corsi di scuola media per adulti a Torino. Appassionato di storia regionale, si è interessato al brigantaggio, all’emigrazione transoceanica, alla figura di Francesco Saverio Nitti, al fascismo e alle lotte per la terra del secondo dopoguerra. Vari suoi saggi e articoli si possono leggere sulle riviste Bollettino Storico per la Basilicata, Basilicata Regione, Mondo Basilicata e su libri di autori vari (Soveria Mannelli 2008: Villa Nitti a Maratea. Il luogo del pensiero; Torino 2009: Dalla parte degli ultimi. Padre Prosperino in Mozambico; Potenza 2010: Potenza Capoluogo (1806-2006)). Ha curato inoltre mostre foto-documentarie sull’emigrazione italiana, sugli stranieri in Italia, sulla vita e l’opera di F. S. Nitti, sulle donne al confino e sul confino degli omosessuali nel Materano. Quest’ultima è stata presentata finora in una quarantina di città e ultimamente a Firenze e a Cagliari nelle sedi regionali. Ampliando la ricerca sul suddetto o tema ha poi pubblicato il libro Adelmo e gli altri. Confinati omosessuali in Lucania (ombrecorte, Verona 2019) andato presto esaurito. Ha poi svolto un’ampia ricerca sugli stupri commessi nella regione negli anni del grande brigantaggio  e sui femminicidi e gli omicidi commessi da donne. L’una e l’altra sono in speranzosa attesa di pubblicazione.
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