martedì, 24 Giugno , 2025
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Raffaele Rossi, il Vescovo materano che fece suo il messaggio di Leone XIII e della Rerum Novarum

La elezione di Robert Francis Prevost a papa, quale successore di papa Francesco Bergoglio, ha creato un vero e proprio dibattito e corsa ad indovinare il motivo per cui è stato ripescato il lontano nome di Leone XIII. E si è avuto papa Leone XIV. Non ci vuole una grande intelligenza o sottilissimo intuito per capire perché papa Bergoglio volle chiamarsi semplicemente Francesco. Papa Bergoglio volle insegnare umiltà e schiettezza, nel desiderio di dare il massimo valore al messaggio evangelico nella sua più genuina purezza. San Francesco, a dirla con Dante, sposò la Povertà. E come san Francesco si spogliò dei suoi abiti e della sua ricchezza di commerciante, lo stesso ha fatto papa Bergoglio; e come san Francesco volle morire sulla nuda terra, avendo come guanciale una pietra, allo stesso modo papa Bergoglio ha voluto una comune bara, poggiata per terra, visibile a tutti.
Robert Francis Prevost è andato a ritroso, indietro di oltre un secolo, recuperando un papa vissuto a cavallo tra ‘800 e’900, operante in un periodo di grandi cambiamenti. Si assise in mezzo a loro, cercando di trovare la giusta misura o giusto mezzo fra cielo e terra. Non enunciò principi, ma, coraggiosamente, soprattutto operò. Si potrebbe dire che papa Francesco sia stato il san Giovanni Battista, il profeta che, in un periodo di grande crisi delle coscienze, urlò forte il suo richiamo alla retta via. Ma fu vox clamantisi in deserto. I Potenti della terra non hanno ascoltato il suo grido. Qualcuno, forse, ha riso di lui e l’ha irriso. Che il presidente degli Stati Uniti, Trump, si sia travestito da papa appena dopo la sua sepoltura, è cosa che non si fa per il papa, ma nemmeno per il comune cittadino. Leone XIV è invece Cristo, il cugino di Giovanni Battista, che da lui si fece battezzare. Subito dopo lasciò la casa e mosse per le strade del mondo, frammisto alla folla, di cui si fece capo e guida, con marcia su Gerusalemme. Qui entrò nel tempio e ne scacciò i mercanti. “Giovanni – dice Cristo ai Giudei – era la lampada ardente e splendente; a me il Padre ha dato delle opere da compiere”. Il potere politico ebbe paura di Cristo e lo crocifisse.
I cardinali, nei nostri giorni, in Conclave, forse ricordandosi di tanto, hanno voluto eleggere come papa un americano, cioè un figlio della Potenza più grande del mondo, da cui dipendono, in gran parte, i destini dei popoli della terra, sia che si voglia la pace, sia che s’insegua la guerra. Molto più spesso gli USA hanno voluto e tramato per la guerra, inseguendo l’ambizione ad essere l’eterna sentinella del mondo. Il Sudamerica, attraverso le vicende politiche e storiche del Cile, del Messico, del Venezuela, vittime della politica statunitense, sta a testimoniarlo.
Ma, se è nato nella grande America, a Chicago, Robert Francis Prevost ha condotto la sua azione di missionario nel Sudamerica, quasi a voler ripagare e compensare il peccato e le colpe del suo Paese. Non gesuita; non crede nel valore assoluto della parola e della scuola. E’ agostiniano; e, come sant’Agostino, vuole entrare e far parte della Civitas terrestris, perché, di essa, vuol preparare l’ascesa alla Civitas caelestis o Gerusalemme I Potenti della terra, temendone la forza d’urto, già mostrano le prime preoccupazioni. Francesco era il papa dei poveri; Leone XIV cercherà il confronto con i Potenti. Come, e con quali risultati, si vedrà.
In questo discorso, testimonianza o exemplum, in una piccola città della provincia meridionale, può essere Matera Negli anni di Leone XIII (1878 – 1903), Matera ebbe un vescovo dinamico che, nel momento in cui la città viveva gli anni di crisi che erano dell’Italia, dell’Europa e del mondo, non si chiuse nel suo Episcopio. La città conobbe, in quegli anni o mesi, il trauma di una presenza protestante, mai conosciuta prima. Erano gli anni del Monaco Bianco, al secolo Luigi Loperfido, agitatore e organizzatore della misera folla contadina, sepolta nel buio e nell’umido dei Sassi. Essendo riuscito a creare una Lega contadina, cui aderivano circa 3.000 soci, per la prima volta si ebbe, in una città remissiva, uno sciopero generale, che vide scontri con i Carabinieri. I grossi proprietari terrieri della città avevano fatto un accordo con la Lega e con il Monaco Bianco, impegnandosi a non assumere, per la mietitura, a basso prezzo, braccianti pugliesi. Assumendo solo manodopera del luogo, si impegnavano a fornire una più equa paga. Vennero meno all’accordo, scatenando la rivolta popolare, con in testa le donne. Si ebbero casi di scioperi alla rovescia. I contadini invasero i campi dei latifondisti, tra i quali l senatore Gattini, e si diedero a mietere gratuitamente. Nei tafferugli ci fu anche un morto, nella persona del contadino Giuseppe Rondinone. I responsabili dell’agitazione, compreso il Monaco Bianco, furono processati e assolti a Potenza, dove era attivo un primo movimento socialista.
Il vescovo Raffaele Rossi si assise in mezzo alle parti, attivamente governando la Diocesi di Matera e Acerenza dal 1899 al 1906. Fondò, fra l’altro, “La scintilla”, settimanale battagliero negli argomenti e nel linguaggio. C’è stato chi, in quel Vescovo, ha colto persino qualche venatura di modernismo. Fortemente suggestionato dalla Rerum Novarum di Leone XIII, pubblicata nel 1891, dodici anni dopo, in occasione della Quaresima del 1903, egli diffuse una lettera pastorale, rivolta al “Clero e Popolo delle Archidiocesi di Acerenza-Matera e Tricarico”. Senza perdersi in inutili preamboli, asseriva, di forza, già nelle prime righe, che, “tra tante questioni che premono con possente aculeo le nuove generazioni, occupa il primo posto quella che si compendia in due concitate parole: pane e lavoro …. Mai, come nell’ora procellosa di oggi – continuava la lettera – si udirono in ogni lembo d’Italia e, possiamo dirlo, della vecchia e nuova Europa, levarsi voci irrequiete e fremebonde di turbe affamate, che per le vie e per le piazze, nelle città e nelle campagne, gridano e schiamazzano: vogliamo pane e lavoro”.
Aver usato la parola “schiamazzo” per indicare le lotte sociali, significava sicuramente diffidenza, preoccupazione e rifiuto della protesta di piazza. C’era timore e condanna. Ma che ci fossero ragioni di fondo che spiegavano il fenomeno, era scontato. Non serviva volgere la testa dall’altra parte, o fare opposto schiamazzo con voce di scandalo e scomuniche. Il problema era serio e andava seriamente affrontato. Perciò, presto si presero le distanze da chi organizzava e strumentalizzava quello “schiamazzo”, cioè dai socialisti, pur senza che si negasse la responsabilità di chi stava loro di fronte. La dottrina socialista e quella liberale, a parere del Vescovo, andavano messe sullo stesso piano, ugualmente avverse e avversate dalla Chiesa. Il Partito socialista, fondato nel 1892, cioè un anno dopo la Rerum novarum, aveva raggiunto la Basilicata nel 1902, anno in cui, a Potenza, c’era stato il primo Congresso regionale. Vi partecipò anche il Monaco Bianco, pur non iscritto a quel partito. Le sue istanze sociali, però, lo ponevano comunque in linea col Partito socialista, tanto che, quando, con i suoi contadini, si trovò imbrigliato nelle vicende giudiziarie di cui si è detto, poté contare sul generoso sostegno di Raffaello Pignatari (1880-1920) ed Ettore Ciccotti (1863-1939), avvocati e dirigenti socialisti a Potenza.
Monsignor Raffaele Rossi, ponendosi con solennità super partes, nel seguito della lettera, dichiarava innanzitutto la sua totale disapprovazione per la dottrina liberale, tutta schierata a favore dei padroni e del libero mercato. In contrapposizione, egli dava, come naturale e consequenziale, e quindi radicata nella storia e in qualunque società, la lotta di classe. Dappertutto, infatti, esistevano e sempre erano esistiti ricchi e poveri, tra loro contrapposti. I liberali avevano diffuso la voce, secondo la quale la giustizia non poteva essere raggiunta se non attraverso una libertà senza confini. Alle grida di dolore delle masse diseredate, essi non offrivano “altro rimedio che la libertà panacea generale”, unica buona “per guarire da tutti i mali e per trasformare la terra in nuovo giardino di delizia”. Ricchi e capitalisti – si diceva – erano nella facoltà “di assottigliare a loro vantaggio ogni dì di più le mercedi”, così come “gli operai, i proletarii (erano nella facoltà) di esigere nel loro interesse sempre più alti salarii”. Insomma, si voleva dare ad intendere che “non altro che la libera concorrenza avrebbe dovuto addurre al mondo la giustizia sociale”..
Raffaele Rossi, lasciata “da parte la vacuità del palliativo, tangibile a tutti”, non si lasciava coinvolgere. Obiettava che il rimedio liberale era peggiore del male. Chi, infatti – scrive -, “poté mai persuadersi che un conflitto di interessi contrari, così vitali, si sarebbe potuto armonicamente comporre?”. Di fatto, “il rimedio della sola libertà, dato senza misura ai lottanti, doveva per necessità riuscire, come era avvenuto, ad accendere sempre più l’odio di classe”. In regime di totale libertà – aggiungeva – si dà che “l’uomo fornito di maggiore robustezza muscolare vince facilmente nella lotta il più debole; così (come) il più ricco, o più forte capitalista può facilmente opprimere nella gara economica i meno ricchi”, e quindi i proletarii. Non era motivo di meraviglia, perciò, se questi, maggioranza effettiva, “stretti in massa”, ricorrevano “a quel moto formidabile di reazione da mettere spesso in serio pericolo l’ordine pubblico, rompere le armonie della vita tranquilla, tarpare le ali alle industrie ed al commercio, rendere più ampia e sentita la miseria di tutti”.
Al Vescovo, tuttavia, non piaceva nemmeno la seducente soluzione offerta dal socialismo. Preoccupato del manifesto materialismo ateo della dottrina, non ne poteva condividere nemmeno la dottrina sociale. Si asseriva, da parte dei socialisti, che, resa collettiva la proprietà, “a tutti sarebbe stato distribuito il lavoro e i prodotti di esso tutti sarebbero confluiti nelle mani della società, e da questa divisi integralmente tra quelli che ne sostennero il peso, cominciando a dare a ciascuno secondo il suo lavoro, per giungere a darlo a seconda dei suoi bisogni, termine ultimo della perfetta giustizia sociale e della compiuta giustizia sociale”. A questo modo non si sarebbe visto più chi, pur faticando, non ha pane per sfamarsi”. Il che, pur bellissimo sogno, a parere del Vescovo, era profondamente contrario alla natura umana, che è portata a badare innanzitutto a sé stessa, per poi, eventualmente, darsi agli altri. Che non era un bel pensiero cristiano, ma certamente era realistico.
E’ vero, infatti, che esiste innanzitutto l’amore di sé stesso. Per fortuna c’era la Chiesa che, ad evitare un pernicioso egoismo, integrava e completava tale primigenio amore per sé con l’amore per gli altri. Era il Vangelo a dire: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Ovvero, “non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te”. La soluzione, in definitiva, era tutta e solo nel solidarismo cristiano, che, mentre “difendeva la proprietà privata, condannava la proprietà collettiva”. Era come dire che, in tempi tragici, quali si erano definiti attraverso gli ultimi episodi di lotta e di odio di classe, solo “la Chiesa di Gesù Cristo … poteva ancora parlare con speranza di essere ascoltata dagli oppressi, appunto perché si era tenuta costante” sia “a non divenire religione borghese” sia “a tener fronte alla insurrezione socialista”.
“Ricordate – ammoniva in conclusione Raffaele Rossi, rivolgendosi ai suoi fedeli. – In tempi ancor più procellosi di questi, le antiche corporazioni, vera creazione della Chiesa, furono la salvezza dei popoli. Sol perché associazioni religiose poterono stringere tutti come in vincolo di famiglia, solo perché lo spirito cristiano vi presiedeva, poterono legare in fraterno amplesso padroni e operai, ricchi e poveri, poterono prevenire disordini, impedire ribellioni, contenere violenti scoppii del naturale antagonismo, provvedere per tanti secoli ai diseredati di pane, lavoro e pace”. Perciò – concludeva – “siate docili alla voce autorevole di Leone XIII. Scendete, scendete al popolo; i poveri, i proletarii, gli operai siano da voi soccorsi con tutti i mezzi di cui potete disporre… Guardate le associazioni…tanto diffuse e fiorenti nella Francia per l’opera indefessa dei Harmel e dei De Mun, le cooperative e le casse popolari e rurali sul modello di quelle stabilite da Raiffeisen in Germania, le unioni di agricoltori simili a quelle della Vestfalia, dei Paesi renani, della Slesia, della Baviera; ma badate che queste associazioni siano veramente cristiane, se le volete vedere fruttuose davvero”.
La Chiesa, in definitiva, cercava, in tal modo, di entrare fattivamente nel sociale, in ossequio alla sua missione. Non poteva limitarsi alla denunzia, pur necessaria come prima fase, come ha fatto Bergoglio, tristemente inascoltato. Doveva seguire il momento dell’azione, cioè l’impegno per l’imposizione del sacrosanto principio della pace, che, etimologicamente, è patto (da paciscor o pango latino), accordo, convivenza, rispetto, riconoscimento dei diritti alla vita di tutti, quindi alla giustizia e libertà.
Se, dunque, la storia ha un senso, e ha un senso la scelta di un nome al posto di un altro, da papa Leone XIV ci si aspetta una presenza attiva, che sappia coerentemente cogliere e distribuire torti e ragioni. In passato, un ruolo di presenza dominante lo ebbe Giovanni Paolo II, cui, polacco, fu dato il compito di puntare l’indice accusatorio tutto ad Oriente, verso il Sistema Socialista Sovietico, di cui si voleva e si decise il crollo. Giovanni Paolo II, di conseguenza, fu il papa che, rivolto con altro occhio ad Occidente, andò a trovare, a confessare e comunicare il più terribile dittatore successivo a Hitler e Stalin. Si vuol dire di Pinochet. Con papa Leone XIV, americano, statunitense di Chicago, ci sono motivi per credere che debbano temerlo, in senso politico e culturale, allo stesso modo, forse, Oriente ed Occidente. Ma forse, a giudicare dalla situazione attuale, maggiormente si ritiene debbano temerlo, ad Occidente, Trump, Nato e Unione Europea che, con le loro risorse e le loro armi alimentano le guerre più atroci che in questo momento si combattono. Si vuol dire di quella in Ucraina e quella in Medio Oriente, dove guerra, in realtà, non c’è, ma solo inconsulto bombardamento, cinica negazione di alimenti, cioè fame, sete, strage di massa, e quindi genocidio, se, per genocidio, s’ha da intendere una pratica criminale che nega vita e rinascita ad un popolo.

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