lunedì, 10 Febbraio , 2025
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Quando il pane profumava della tradizione dei Sassi

E a raccontare, nel solco dei ricordi, della ricerca e con un po’ di rammarico che prende quei materani, legati a identità e memoria dei rioni Sassi, segnate da buone e amorevoli pratiche dei processi di panificazione in casa e poi nei forni degli antichi rioni di tufo, è il professor Giovanni Caserta, che ben volentieri ci torna durante incontri e convegni. Come quello della tre giorni su ”Matera Città del Pane”, dove ha trattato de ”I pani cerimoniali nella tradizione materana”.
”Pane del cerimoniale, perchè si accompagna a tante cerimonie a partire dall’impasto per finire al consumo del pane-racconta il professor Caserta , che continua a scrivere di fatti, personaggi ed epoche , soprattutto, della storia di Matera e della Basilicata. A partire dall’impasto perchè la donna si faceva il segno della croce e si aveva cura di tenere lontana la donna che aveva il ciclo, perchè si riteneva che quella condizione non consentisse la buona riuscita della lavorazione. Si usava il lievito e anche su questo si provvedeva a fare un segno di croce . C’era,poi,l’impasto che veniva messo a lievitare nel letto matrimoniale , dalla parte dell’uomo. Nel letto matrimoniale perchè, prima ragione, era caldo . Secondo perchè rappresentava la lievitazione, la nascita della vita, e dalla parte dell’uomo, perchè il seme della vita viene dall’uomo e alla donna spetta di riceverlo e farlo crescere. Le forme di pane, segnate con le iniziali del proprietario con un timbro in legno, venivano poi portate al forno . Importante era la collocazione nel forno, rispetto al fuoco posto in posizione centrale. Tutta la preparazione del pane, in genere, era accompagnata da fatti cerimoniali. E questo non solo a Matera e dintorni, ma da tempi lontani. Basti pensare che il grano è una invenzione, una consegna di una dea, Demetra, e poi Cerere. E tale e tanta è l’importanza e l’attenzione del pane che, ad un certo momento, si incrociò con il mito”

Mito ma restiamo a terra, seguendo quello che accadeva nelle case e nei forni del Sasso Barisano, del Caveoso o della Civita, senza dimenticare il prezioso apporto dei molini che producevano la farina. ” Il nostro pane – racconta Caserta- è quello più specificatamente devozionale e cerimoniale. Se volessimo seguire il calendario potremmo cominciare- anche se non è un vero e proprio pane – fagli anellini di San Biagio. Erano anellini sottilissimi che venivano anche infilati e venduti davanti alla chiesa del Santo, nell’omonima via. Quegli anellini rappresentavano i dischetti di cartilagine della gola e mangiandoli si chiedeva la Protezione del Santo Protettore ”. E poi Pasqua, seguendo il calendario, con i suoi riti e con un pensiero rivolto, soprattutto, ai bambini.

“Tra i pani devozionali inserirei anche la pannarella – continua Caserta. Era impastata con grano tenero. Aveva una forma per i maschietti e una per le bambine.Si chiama Pannaredd perchè aveva un manico di pasta, intrecciata, e poi aveva l’uovo circondata dalla pasta . Ed è un simbolo della primavera e della vita che si apre. Guarda caso, tornando al mito, che si apriva con l’arrivo di Proserpina sulla terra o Kore, e a quest’ultima sembra sia stato dedicato un tempio al colle di Timmari.
Seguendo il calendario arriviamo a giugno, al giorno 13, festa di Sant’Antonio che ha il suo pane. E’ una rosetta liscia di grano tenero, che sembra fosse prodotta nei monasteri antoniani. Veniva benedetto, portato in Chiesa, ma soprattutto, conservato per l’intero anno per il suo valore apotropaico , legato alla paura della tempesta, del fulmine, del vento che ti poteva distruggere il raccolto. E il raccolto si cercava di proteggerlo con il ‘grano di Cristo’ , preparato durante e offerto durante la Settimana Santa, perchè c’erano queste paure. In proposito si recitavano delle preghiere davanti al pane di Sant’Antonio, prodotto ancora oggi. Nella parrocchia di Sant’Antonio al rione Lanera, il 13 di giugno, si distribuisce quel pane in cambio di una offerta, destinata a sostenere opere di beneficenza”
Continuando nel calendario del pane cerimoniale si arriva all’8 dicembre, giorno dell’Immacolata, contrassegnata da ”u ficc(i)latidd” .

” Si consumava all’Immacolata- continua Caserta nel giorno del digiuno, interrotto a mezzogiorno, consumando quel pane fatto di grano tenero.Un po’ un biscottone di mollica molle, bianca, impastato con seme di finocchio. Il nome di ficc(i)latidd , o picc(i)latidd secondo altri, è difficile da interpretare. Ma Emanuele Giordano, che ho interpellato, mi ha detto che possa venire dal latino ‘ buccelatum’, bocconcino. E mi sembra sia la derivazione giusta, visto che dalla lingua degli antichi Romani vengono tanti termini della cucina.Esempio prezzemolo, petrosino viene da petrosilinum, sedano, accio da apium, padella la ”sartascina” da sartago. Sempre , continuando, arriviamo al Natale e inserireie anche la pettole , perchè sono fatte di pasta. E qui c’è una leggenda, che narra di una donna, che le avrebbe preparate per la prima volta. Si sarebbe dimenticata di impastare il pane, perchè aveva partecipato a un evento religioso, e al ritorno a casa aveva deciso comunque di non buttare nulla. Pensò di far friggere quell’impasto nell’olio e venne fuori una fragrante ‘pettola’ che, come u ‘ficc(i)latidd serve a interrompere il digiuno della giornata. E, cosa interessante che oggi può far sorridere, la prima si dava al mulo ( Martino o Bellino, i nomi ricorrenti) perchè era il sostegno economico della famiglia. E se veniva meno era un danno”

Poi c’erano altri pani cerimoniali, che sfuggono al calendario della cultura contadina e sono legati alla celebrazione dei matrimoni, quando gli impegni per la terra erano ridotti al minimo. ” Era il pane della sposa che- ricorda Caserta-si impastava un po’ in tutti i mesi dell’anno. Ma non era così perchè il calendario contadino finiva ad agosto. La vacanza per i lavoratori della terra andava dal 15 agosto al 15 ottobre all’incirca, dopo la bruciatura delle stoppie o dopo una prima aratura. I matrimoni avvenivano tra la fine di settembre e la metà di ottobre . Per quelle occasioni si impastava il pane della sposa, di forma piccola e dal peso di 500 grammi o meno. La cosa più interessante è che vi partecipava tutto il vicinato. Erano le ragazze di quella comunità a impastarlo e questo era motivo di onore, misto a malinconia, perchè se ne andava una vicina, una compagna, ma era anche un motivo di sogno e di speranza, perchè per la donna il grande sogno era quello del matrimonio. Era un misto di sentimenti diversi e con un pizzico di invidia … Quanto alle panelle, per la loro dimensione, erano poste in doppia fila sulla tavola da trasporto per andare al forno e venivano infiocchettate con nastrini colorati. Al rientro c’era la festa collettiva e il fornaio annunciava ”Il pane della sposa”, riecheggiato dai ragazzi vocianti che lo seguivano.Le panelle erano piccole, perchè simbolo di grazia, che fa tenerezza, e per un motivo pratico potevano essere consumate, a pezzi, rispetto alle forme più grandi che andavano affettate.

Non c’erano le sale e i pranzi si organizzavano nei lamioni dei rioni Sassi. In quello di mio nonno, in via Fiorentini, frequentemente si celebravano i pranzi matrimoniali. C’erano due tavoli lunghi, da una parte e dall’altra. Sul lato opposto c’erano gli sposi . Gli invitati sedevano sulle tavole del pane , poste tra una sedia e l’altra. C’era anche il pane farcito di olive, che si preparava in alcune circostanze, battesimi e cresime compresi. In conclusione questi riti sono scomparsi per ovvie ragioni. Sono nati i forni a gas , elettrici. Non si impasta più in casa . Anche gli stessi pani devozionali, come pettole e ficc(i)latidd si vanno a comprare nelle panetterie .Il clima della festa è anche venuto meno . Le cose sono cambiate, ma ricordare , tenere presente delle tradizioni legate alla panificazione fa sempre bene. Voglio ricordare che l’abbandono dell’impasto in casa è coinciso con l’evacuazione dei Sassi. Ma un pochino prima, veramente, si incominciavano a vedere il pane venduto nei negozi . Era bianco e piaceva di più del nostro di colore giallino e fato con semola di grano duro. Quello venduto era impastato con grano tenero , bianco, piaceva quasi fosse un privilegio .Il primo pane bianco l’ho visto con il pane degli alleati. Lo chiamavamo il pane degli inglesi…”

E come non ricordare quegli artigiani dell’arte bianca che chiamavano le donne per i turni delle infornate, girando per i vicinati. Erano i fornai , alcuni hanno dato luogo alle tradizioni di famiglia : Perrone, De Palo, Cifarelli altri hanno passato la mano e appeso la pala al chiodo..Caserta ne ricorda tanti della sua infanzia .” … A cominciare da Tagarelli che era il fornaio di famiglia-ricorda con un pizzico di commozione- per passare ai Nicoletti che era il panettiere dei due forni . Era l’unico. Uno in via Fiorentini funzionava tutti i giorni per la panificazione. L’altro nelle ricorrenze di Pasqua o Natale quando, accanto al pane, la cui richiesta aumentava, si infornavano le mitiche tortiere per la ”lasagna imbottita” o per la ” carne e patate”. Altri tempi, altri sapori…Oggi lo chiamano turismo esperenziale. Ma con i selfies e le narrazioni mordi e fuggi, quando va bene, c’è spazio per un pezzo di focaccia…

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