sabato, 8 Febbraio , 2025
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Matera 2019 sia occasione per un’altra idea di mezzogiorno e mediterraneo

Per uscire da un disagio che mi accompagna fin dal ‘lancio’ dell’idea di “Matera 2019” e che trova sempre più ‘ragioni’ nei conflitti che ci sconvolgono nel profondo di fronte all’esodo di intere nazioni dal versante meridionale del Mediterraneo, provo a ‘ragionare’ sulla scelta di fondo del Dossier che ha consentito la vittoria materana e proporre un “raddrizzamento dello sguardo”, oggi a mio parere inevitabile.

L’occasione immediata mi viene offerta dall’intervento di Piergiorgio Corazza: “il nostro patrimonio maggiore, il tesoro nascosto, è nel parco della Gravina e delle chiese rupestri, un vero museo all’aperto che racchiude molte storie che attendono di essere raccontate …. E’ un libro di cui mostriamo solo la copertina che attende di essere sfogliato per raccontare le storie del popolamento di quei luoghi nel paleolitico, della vita nei villaggi trincerati e nella grotta dei pipistrelli , del monachesimo benedettino, delle chiese rupestri, delle straordinarie tecniche della architettura scavata che ha costruito grandi chiese togliendo il materiale invece di aggiungerlo. Esempio rarissimo al mondo.”

Questo – dell’intervento di P G Corazza – è il passaggio che m’interessa sottolineare, sia pure distanziandomi dalla specificità della sua cultura tecnica e specialistica: come si fa a raccontare le molte storie racchiuse nel nostro patrimonio ‘maggiore’, intessute intimamente di consuetudini, miti, religiosità, relazioni e scontri scaturiti dai tanti incontri e scontri che le nostre genti hanno vissuto nei millenni coi loro dirimpettai del “Mare fra le terre”?
Tutto questo, mi sembra, porta immediatamente in primo piano la questione della “modernità” e lo scontro modernità/tradizione. Che riassumo, per rendere comprensibile il ragionamento.

La definizione del concetto di tradizione è delicata. La tradizione è un concetto polisenso. Quando è declinato al plurale ha una connotazione positiva (ritorno alle origini) e si confonde con la cultura di un popolo. Ma può essere anche sinonimo di ritorno all’indietro, d’immobilismo o meglio di arcaismo ed esattamente di anti-modernismo.

Al contrario la modernità, in senso etimologico, è ciò che appartiene ad un’epoca recente, allo spirito del tempo, e si oppone di conseguenza a ciò che è antico. Ma al di là di questo significato superficiale, la modernità costituisce uno strumentario critico a-temporale, poiché essa si interessa alla sostanza e pone in secondo piano la cronologia storica. Come ormai è stato precisato, il concetto di modernità sembra tuttavia inventato in Europa occidentale. Il suo significato ideologico è stato intimamente legato a questo spazio prima di acquisire, in ragione delle sue qualità maturate al contatto con l’occidente, una dimensione universale. La modernità è conseguentemente anche un’ideologia e si impossessa di criteri e strumenti di analisi che, malgrado la loro varietà, hanno acquisito una dimensione veramente scientifica e dunque universale.

Un suo criterio normativo è l’essere presenti nel proprio tempo, il valore dei valori. Un criterio procedurale è l’uscita dalla tradizione, dallo stato feudale alla democrazia, dall’economia locale all’economia globale.

Ritorno alla definizione di cultura poiché il suo ruolo è essenziale per capire la dialettica tradizione-modernità. Utilizzata in una varietà di contesti ed a fini differenti, la cultura è generalmente definita come “un insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, le arti, i costumi, le leggi, le consuetudini, ed ogni altra capacità o attitudine acquisita dall’uomo’ in quanto membro della società”.

Questa definizione, lo si sarà compreso, è tale da considerare la cultura come inglobante la religione, che costituisce in ultima analisi il cuore del dibattito tradizione-modernità.
Il ragionamento che vorrei ri-prendere coi miei conterranei ruota appunto proprio attorno all’idea di modernità oggi, nel Sud dell’Europa – più specificamente in prossimità della sponda mediterranea.

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La “globalizzazione” – forma contemporanea della modernizzazione – sembra a molti osservatori allontanare paesi un tempo vicini, esaltare i localismi e sradicare, in nome di una koinè globale, le culture miste, generate dalle secolari relazioni fra popolazioni vicine. Nel nuovo rapporto che la globalizzazione – sia essa intesa come una “ideologia che produce effetti reali” o come un processo storico ormai compiuto – istituisce fra la dimensione locale e quella globale sembra scomparire “il vicinato”. Un vicinato che non è soltanto contiguità fra le terre, fra comunità; ma è anche e prima di tutto espressione di solidarietà nelle comunità familiari, abitative; nelle relazioni interculturali. Ciò che si sta affermando su scala planetaria non è dunque un processo di integrazione culturale: si sviluppano, piuttosto, fenomeni complessi e turbolenti di segmentazione, ibridazione e sdoppiamento culturale.

Fra tutti il fenomeno più diffuso e vistoso è quello della “creolizzazione”, che colpisce una grande quantità di popolazioni indigene, culturalmente deboli o a lungo sottoposte all’egemonia di una potenza coloniale. Senza dire che la retorica del “villaggio globale” sottace l’antagonismo fra le culture e quelle cittadinanze “pregiate” dell’Occidente – da una parte e, dall’altra – le aspettative di un numero crescente di migranti, di rifugiati e di esiliati, provenienti da regioni prive di sviluppo economico o votate all’eterno sottosviluppo – come il nostro Sud. Così l’Europa tende a divenire più atlantica e meno mediterranea e a costruirsi opponendosi ad un “altro” – l’Islam, il Sud – che è invece parte della sua storia e della sua civiltà, rinunciando così alle sue stesse radici.

Criticare la “globalizzazione” e il processo di sradicamento che questa comporta significa quindi, almeno per una parte degli autori europei che la studiano, non solo promuovere la ri-costruzione di un’Europa sociale in grado di contrastare l’aggressione del liberismo globale, ma anche elaborare un progetto europeo in grado di opporsi culturalmente alla omogeneizzazione e alla “creolizzazione” che la globalizzazione promuove. Modernizzazione e globalizzazione tendono a rimuovere le tradizioni o, per lo meno, a ignorarle, abbandonandole al loro destino particolaristico, come pura ridondanza folcloristica.

Ma le tradizioni non arrivano sino a noi dal passato per una sorta di inerzia culturale: sono una invenzione del presente che richiede una costante rielaborazione culturale. Si può dire che i processi identitari collettivi si alimentano proprio di questa vivente rielaborazione della tradizione, di questa permanente interazione fra tradizione e modernità.

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E dunque ci si può chiedere: quale rielaborazione delle tradizioni mediterranee è oggi possibile e auspicabile come base di un pensiero, di un linguaggio, di una identità mediterranea non appiattita sull’attualità senza volto della modernizzazione globale?

La mia opinione è che la deriva secolarizzante della modernità non deve significare il rifiuto delle radici culturali dei popoli, radici culturali che sono – va ricordato – in larga parte religiose. I legami di appartenenza civile e politica sono fortemente influenzati dalle iconografie religiose, così ricche di suggestioni antropologiche, di motivazioni e di sostegni normativi dell’esistenza individuale. L’abbandono dell’etnocentrismo religioso – abbandono necessario per superare il dispotismo totalitario del pensiero dogmatico – richiede che ciascuno per la sua parte si sforzi di cogliere il lato oscuro e aggressivo della propria cultura, che metta a nudo le pericolose illusioni del proprio nobile universalismo.

Il dialogo interculturale che qui si ripropone richiede una critica degli aspetti dogmatici delle antiche religioni, ma non impone la negazione delle radici religiose di ciascun popolo.

E sul piano dell’organizzazione pubblica la modernità non può non significare un certo grado di differenziazione fra i sottosistemi primari del sistema sociale, a cominciare dalla differenziazione fra il sistema religioso e il sistema politico. Questo vale anzitutto per i paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo, dove la Chiesa cattolica romana – una organizzazione gerarchica e autoritaria, che al suo interno discrimina pesantemente il genere femminile – tende a imporre i suoi dogmi anche con mezzi politici e giuridici: dall’etica sessuale alla concezione della famiglia, alla scuola, alla bioetica: del resto è lo stesso “papa venuto dalla fine del mondo” a ripeterlo!

Questo vale anche per lo Stato di Israele, che è uno Stato sionista e confessionale. E vale anche per le teologie islamiche che influenzano più o meno intensamente le culture arabe mediterranee.

Ma – ecco un punto molto importante – non ci sono soltanto gli arcaici fondamentalismi religiosi con cui fare i conti. C’è anche il fondamentalismo della modernità: è il fondamentalismo di quelle élites politiche e culturali che al di fuori del cerchio della modernità occidentale vedono solo barbarie, oscurantismi, oppressioni e repressioni.

C’è nel mondo occidentale un fondamentalismo acquisitivo e consumista, dominato dalla competizione, dall’efficienza produttiva e dalla velocità.

È un mondo senza misura e senza bellezza – penso a Camus, nel quale lo sviluppo dell’economia e della tecnica non incontra alcuna resistenza, perché l’unico elemento sacro è il dominio dell’uomo sulla natura. E la natura – l’ambiente della nostra vita quotidiana – ne viene orrendamente devastato e avvelenato. E c’è persino – è uno degli aspetti più drammatici della globalizzazione – un fondamentalismo dei diritti dell’uomo e della democrazia. In nome di questo universalismo umanitario l’Occidente ha scatenato guerre di aggressione nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq.

Il dialogo mediterraneo che si auspica potrebbe tentare di inserire una nota diversa, aprire un’esile breccia nella minacciosa compattezza degli schieramenti manichei che di nuovo dividono il mondo, sostituendo al fatalismo di una modernizzazione aggressiva il senso della misura e del possibile.

Questo atteggiamento, inoltre – e torno alla questione centrale che intendo porre – ci consente di ‘specchiarci’ nella nostra vicenda locale e regionale storica e culturale: guardarci ‘da lontano’ per meglio comprendere le tante ‘vicinanze’ storiche, culturali, religiose, economiche, sociali, con le popolazioni dell’altra sponda.

Quante volte, osservando da vicino i comportamenti di tante famiglie immigrate, abbiamo convenuto che tante loro usanze, tradizioni e valori ci appartenevano ancora cinquant’ anni fa? Perché, ancor oggi, il detto popolare “una faccia, una razza” accomuna greci e italiani evidenziando le similarità tra i due popoli ed anche se l’associazione più appropriata sarebbe, probabilmente, tra i Greci e gli abitanti della Magna Grecia, quel sud d’Italia che con la Grecia scambiò saperi e cultura? Si tratta di un detto molto diffuso, entrato a far parte del patrimonio popolare che definisce la comunanza di principi, valori, intenti e cultura.

Quante volte – nei momenti difficili della nostra esistenza individuale e sociale di meridionali – torniamo a chiederci cosa abbiamo guadagnato e perso con la ‘modernizzazione’ forzosa dell’Italia, dell’Europa? Non possiamo far finta di nulla, assumendo acriticamente parole d’ordine che non ci appartengono.

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Non possiamo accettare passivamente la nostra “creolizzazione”.
Matera 2019 è l’occasione appropriata per dare il nostro contributo critico a un’altra idea di Mezzogiorno e di Mediterraneo.

E’ – del resto, oggi – una impellente necessità di fronte alla diaspora meridionale: soltanto ieri – nel secondo dopoguerra – nove milioni di meridionali sradicati e buttati per il mondo. Oggi, oltre ai nostri giovani che seguono le stesse rotte dei migranti, un esodo di proporzioni bibliche è appena cominciato e non si arresterà almeno fino a quando non si consolideranno seri investimenti strutturali a risarcimento delle rapine perpetrate in quelle regioni da cui si origina; e che non sono stati neppure ancora pensati.

Non è forse questa la vera scommessa che sta di fronte alla Città divenuta – soprattutto dopo la candidatura, metafora di un’area grande quanto quella della Magna Grecia?

Che senso può avere, in questo quadro globale così turbolento e allarmante, definire un’area culturale ‘mediterranea’ e proporsi di avviare al suo interno un dialogo interculturale, un’economia della solidarietà?

È una fuga dalla realtà? È una divagazione letteraria – impastata di terra, di mare e di sole – sull’onda della struggente suggestione ‘meridiana’ che ancora promana dall’opera di Albert Camus? È celebrare retoricamente il nazionalismo del sole, della vite, dell’ulivo e degli agrumi?

Non è forse vero che il Mediterraneo è ormai un prezioso fossile della protostoria umana, un piccolo mare emarginato dalle dimensioni ‘oceaniche’ del mondo tecnologico-informatico? Non è una periferia lenta, inefficiente e corrotta dell’Occidente, senza prospettive se non quelle del piccolo cabotaggio turistico-commerciale? E non è stato il mare delle guerre di religione, il teatro di alcuni dei drammi più acuti e feroci del nostro tempo? Esaltare il ruolo di un mare marginale e pieno di conflitti non è una nobile e anacronistica utopia?

Lavorare ad una indagine comparata delle vicende storico-sociali e culturali dei paesi rivieraschi del Mediterraneo; rilanciare una programmazione efficace ‘interregionale’ che coinvolga l’altra sponda è dannatamente urgente. Ma è anche una delle poche strade che ci restano per salvaguardare la nostra stessa identità culturale, se vogliamo evitare l’omologazione definitiva o la malinconia borghese della cultura dei feticci … .

Non siamo proprio all’a,b,c: si tratta di tirare fuori dai cassetti documenti ancora attuali di programmazione territoriale di area geografica vasta – comprendenti, cioè, anche le realtà territoriali rivierasche frontaliere magrebine, ecc. e favorire interventi socio-economici di reciproco vantaggio con quelle comunità (mi riferisco – per fare solo un esempio – allo studio del Politecnico di Milano, commissionato dal Consorzio Industriale di Matera, qualche anno fa).

Forse, assumendo per davvero tale cornice “meridiana” trova anche piena legittimazione il Dossier della candidatura e piena credibilità quanto scritto da P. G. Corazza: “A Matera il nostro patrimonio è poco conosciuto e per niente valorizzato per cui l’offerta culturale e turistica non è adeguata alle sue potenzialità e concorre poco alla economia della città , mentre non vi è nessuna previsione, nessun progetto sulla sua valorizzazione (E’ il pezzo mancante del Dossier 2019)”.

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