mercoledì, 9 Luglio , 2025
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Marconia e altre storie. Le parole e i fatti, prima parte

Si deve a Benedetto Croce l’affermazione secondo la quale tutta la storia è storia contemporanea poiché tutti gli eventi del passato «hanno contribuito alla costituzione del mondo quale è» (B. Croce, Etica e politica, Bari, Laterza, 1967). A questa affermazione se ne possono affiancare altre, speculari, secondo le quali tutta la storia è storia politica e la cosiddetta imparzialità di chi si occupa, per mestiere o per diletto, del passato è un maldestro tentativo di nascondere la prospettiva dalla quale a quel passato si guarda. Maldestro poiché la soggettività, la parzialità dell’osservatore è già nella scelta del tema da studiare. Ciò che si chiede quindi ha chi ha questa passione è di provare ciò che afferma con onestà intellettuale,  l’accuratezza nella ricerca e nell’interpretazione delle fonti e , cosa che non guasta, il coraggio di rivedere le ipotesi di partenza se la documentazione trovata dimostra cose diverse da quelle immaginate.                 Questa premessa è per dire che è per motivi  “politici” che chi scrive si permetterà di fare alcune osservazioni sull’intervento intitolato «A Marconia ci fu gestione “umana’’ della colonia penale» comparso su questo blog  il 26 aprile e firmato, sembrerebbe, da Franco Martina e da Vincenzo Maida. Una doverosa risposta a chi si chiede retoricamente se il fascismo fu “davvero” il male assoluto sottintendendo che la risposta debba essere: ma figuriamoci, ma non esageriamo. E questo, alla faccia della la svolta di Fiuggi di trent’anni fa, non è che uno dei tanti piccoli e grandi episodi che provano che il fascismo, come certe sostanze radioattive, non svanisce con il tempo. Ma veniamo ai fatti. Cominciando con il dire che, diversamente da quanto riportato nell’intervento in questione, Marconia non era una colonia penale, ma, appunto, di confino politico. Come sta scritto  nella carta intestata usata dalla sua direzione. Una colonia finalizzata, secondo la dicitura usata in alcuni casi, a bonificare quell’area.Non era né avrebbe potuto essere una colonia penale poiché giuridicamente il confino non era una pena, ma una misura preventiva, una pratica, a dire di Mussolini, non di terrore, ma appena di rigore. «E forse nemmeno; è igiene sociale, profilassi nazionale. Si levano questi individui dalla circolazione come un medico toglie dalla circolazione un infetto» (intervento alla Camera del  26 maggio 1927 noto come discorso dell’Ascensione). E se il provvedimento non avesse dato il risultato atteso avrebbe potuto essere replicato. Come accadde piuttosto spesso.                                  Venendo poi al primo capoverso dell’intervento, sarebbero da circostanziare meglio i tempi e i numeri riguardanti il fatto che «alcuni, dopo la fase detentiva durante il ventennio fascista, decisero di tornare dalle nostre  parti e di stabilirsi definitivamente». Quando sarebbe accaduto questo dal momento che dopo essere stata trasformata da colonia confinaria , in campo di internamento (estate 1940), fu nel dicembre 1943 trasformato in centro di smistamento profughi?                                   A me risulta che qualcuno ci restò anche dopo l’arrivo degli angloamericani, perché il suo paese era ancora sotto occupazione nazifascista. E che qualcun altro ci rimase per qualche tempo anche dopo la Liberazione perché a Marconia, grazie al loro lavoro, si era creata una florida modello e c’era da mangiare mentre altrove si faceva la fame. Credo però che fu un fatto sporadico e in ogni caso dovuto a ragioni pratiche e contingenti. In ogni caso andrebbe ricordato che fino ai primi anni Cinquanta la zona era malarica. In ogni caso qualcuno vi si fermò per un certo tempo. Uno fu il comunista aretino Sante Scapecchi che per qualche anno contese al pisticcese Alessandro Bruni la guida di quei lavoratori.                                                                                         Né è vero che a Marconia ci fosse «una gestione senz’altro più umana rispetto ad altre realtà come Ferrara e Cagliari, dove quelle realtà servirono anche al riscatto e al recupero produttivo dei territori». Non so di Ferrara e Cagliari, ma, come si è detto, è sicuro che da noi i confinati lavoravano. Anzi la colonia fu concepita proprio per rieducare i “reprobi” attraverso il lavoro. A parte questo, vigevano là le stesse regole che negli altri campi e anche là la sorveglianza era affidata alla milizia fascista e ai carabinieri. Oltre trecento uomini al comando del commissario Ercole Suppa.              La comprensione, il buon volere e la simpatia mostrata dai lucani ai confinati fu straordinaria e impareggiabile. Qualcosa di cui possiamo essere orgogliosi ancora oggi, ma poté manifestarsi solo verso chi si trovava nei paesi, al confino “libero” . Gli altri non potevano valersene perché dalla colonia poteva uscire  solo qualche incaricato degli acquisti. Qualche individuo  di fiducia della direzione e perciò stesso inviso agli altri. L’articolo due della carta di permanenza recitava infatti “Non varcare i limiti del confino” e l’articolo sette bandiva ogni forma di socialità all’interno del campo proibendo persino il gioco delle carte.

Alcune prescrizioni avevano uno scopo pratico, altre erano finalizzate unicamente a ribadire la sottomissione all’autorità. Come quella  che imponeva di presentarsi alla direzione o ai carabinieri “a capo scoperto e vestiti compostamente”.   In definitiva, i confinati erano liberi solo di farsi mangiare dalle zanzare lavorando per un modesto salario e allettati dalla prospettiva di vedersi ridurre di un terzo la durata del provvedimento. Cose non da poco, sia chiaro, ma non per la particolare “umanità” di quelle autorità. Per gente abituata a lavorare, infatti, l’ozio a cui erano obbligati a Ponza o a Ventotene era penoso quasi quanto la privazione della libertà. Per tutti i confinati c’era l’obbligo di darsi a stabile lavoro, ma il lavoro nelle isole di confino -così come in molti paesi lucani-  spesso era scarso o mancante del tutto. A Marconia invece c’era da occuparsi stabilmente, specialmente dopo che si iniziò a costruire (940) su progetto di un internato, l’architetto Konyedic, il Centro Agricolo. Un lavoro da forzati, secondo Antonio Pennacchi, l’inarrivabile e appassionato cantore di Littoria e delle bonifiche che a Marconia ha dedicato vari interventi (cfr. Limes n. 3 e 5 del 2004 e n. 8 del 2018).  E questa era l’unica e apprezzata differenza con le altre colonie confinarie. Un privilegio che bisognava tutelare con la rigorosa osservazione a degli obblighi e dei divieti riportati nella carta di permanenza e propiziandosi la benevolenza dei sorveglianti e della direzione. Un privilegio che si poteva perdere per scarso rendimento sul lavoro. Spesso perché l’organismo debilitato dalla malaria non consentiva più certe prestazioni. Motivo per cui si era inviati, magari con il pretesto della maggiore salubrità, in qualche isola. Una misura punitiva mascherata da buone intenzioni. Per misurare il tasso di umanità-salubrità di Marconia bisognerebbe sapere quale era la situazione sanitaria generale e valutare quanti trasferimenti vi furono dalla sua apertura fino alla trasformazione in campo di internamento.                                                                 A decidere chi tenere e chi mandar via erano formalmente le autorità di polizia. Magari su indicazione del l’imprenditore romano Eugenio Parrini, uno Schindler de noantri, cui fu affidata la gestione di circa 800 ettari,  in parte da disboscare, e tutti da bonificare. Una terra fertilissima che non aveva mai conosciuto l’aratro. Sarebbe interessante saperne di più sulla gestione di questo enorme capitale valorizzato da manodopera a basso costo pagata a metà dallo stato -il sussidio di circa cinque lire corrisposto a chi non poteva mantenersi da solo- e a metà dall’impresa. Non so se ne parla in “Marconia e la sua storia”,  il lavoro di G. Coniglio e L. Barbalinardo che purtroppo non mi è stato possibile consultare.

Cristoforo Magistro
Cristoforo Magistro
(Montescaglioso 1949), è laureato in lettere e ha insegnato Italiano e Storia nei corsi di scuola media per adulti a Torino. Appassionato di storia regionale, si è interessato al brigantaggio, all’emigrazione transoceanica, alla figura di Francesco Saverio Nitti, al fascismo e alle lotte per la terra del secondo dopoguerra. Vari suoi saggi e articoli si possono leggere sulle riviste Bollettino Storico per la Basilicata, Basilicata Regione, Mondo Basilicata e su libri di autori vari (Soveria Mannelli 2008: Villa Nitti a Maratea. Il luogo del pensiero; Torino 2009: Dalla parte degli ultimi. Padre Prosperino in Mozambico; Potenza 2010: Potenza Capoluogo (1806-2006)). Ha curato inoltre mostre foto-documentarie sull’emigrazione italiana, sugli stranieri in Italia, sulla vita e l’opera di F. S. Nitti, sulle donne al confino e sul confino degli omosessuali nel Materano. Quest’ultima è stata presentata finora in una quarantina di città e ultimamente a Firenze e a Cagliari nelle sedi regionali. Ampliando la ricerca sul suddetto o tema ha poi pubblicato il libro Adelmo e gli altri. Confinati omosessuali in Lucania (ombrecorte, Verona 2019) andato presto esaurito. Ha poi svolto un’ampia ricerca sugli stupri commessi nella regione negli anni del grande brigantaggio  e sui femminicidi e gli omicidi commessi da donne. L’una e l’altra sono in speranzosa attesa di pubblicazione.
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