mercoledì, 11 Settembre , 2024
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La donazione De Mabilia fu vera donazione? Le risposte in uno studio inedito dello storiografo Michele Calia

IRSINA – La “donazione De Mabilia” è davvero una donazione? L’interrogativo è lecito. Ed è anche uno degli spunti più importanti che lo storiografo irsinese, Michele Calia, già autore di studi sulla storia e l’arte del suo paese natale e cultore dello studioso più noto sempre di Montempeloso, Michele Janora, ha elaborato nella sua nuova ricerca.

Il testo è ancora inedito. Ma abbiamo avuto la possibilità, grazie alla stima reciproca che ci lega a Calia ed ad una lunga conoscenza, di leggere per il momento alcuni stralci dell’importante e già poderoso lavoro. Un testo che impegna Michele Calia da oltre sei anni a questa parte.

È superfluo ribadire che la narrazione verroniana – apprendiamo dal testo – è impregnata di elementi agiografici, dove il mare, uno dei tòpoi più utilizzati in letteratura, è l’elemento cardine: il viaggio avventuroso via mare, la tempesta, la barca che sta per andare alla deriva, ed infine la presenza di una reliquia in barca che salva carico e passeggeri. Il Verrone mette insieme tutti questi elementi e, nello stesso tempo, presenta Roberto de Mabilia come un eroe d’altri tempi, un novello Ulisse che affronta pericoli d’ogni genere pur di portare la reliquia di sant’Eufemia a Montepeloso. Rispecchia, appunto, tutte le caratteristiche di una passio del V-VI secolo”. Questa la premessa. Che servirà per confutare la tesi della donazione. Uno degli argomenti, insomma.

Il poema verroniano – aggiunge l’autore – fu molto apprezzato dal Pacichelli († 1685/6), diplomatico pontificio che viaggiò molto sia in Italia che in Europa: fece anche quattro viaggi in Puglia, le cui relazioni furono pubblicati nelle Memorie de’ viaggi per l’Europa Cristiana (1685) e nelle Memorie novelle de’ viaggi per l’Europa cristiana (1690). Viaggi ufficiali la cui meta era sempre Altamura, perché l’abate era segretario personale del duca di Parma, Ranuccio Farnese II, titolare del feudo di Altamura. Nel primo viaggio (1680) visitò le province della Capitanata e della Terra di Bari. Dopo una sosta ad Altamura, proseguì alla volta di Gravina. Non è quindi difficile immaginare che il Pacichelli abbia visitato la città di Montepeloso, nonostante la Gelao sostenga il contrario. Nella prima metà del Settecento si conoscevano soltanto una settantina di versi; viene «ritrovato» nel XX secolo dal Di Pasquale e dato alle stampe. Vediamone brevemente il contenuto. Il Verrone narra che, trovandosi a Roma per motivi personali (rerum privatarum), gli furono mostrati (non dice da chi) due documenti contenenti il martirio di sant’Eufemia: uno estratto (depromptum) dalla Biblioteca Vaticana e l’altro «da quel libro che è presso di noi, portato (si dice) da Roberto». La passio Vaticana insegna che Eufemia morì per il morso di un leone, quella invece seguita a Montepeloso insegna che viene trafitta con una spada, attingendo dalla Prefazione di sant’Ambrogio. La fonte dovrebbe essere, invece, il Varazze, visto che nel 385, anno d’arrivo delle reliquie della Santa a Milano, non vi era alcuna passio su Eufemia. Il poema si divide in due parti: nella prima (897 vv.) si narra della vita e del martirio di Eufemia: riporta il nome di papa Caio (283-296) che non ha alcuna attinenza con Eufemia di Calcedonia; omette i nomi dei genitori e quello di Sostene; parla della peste che avrebbe colpito i paesi dell’Asia; cita fiumi, venti e città della mitologia greca; fa un uso eccessivo di similitudini, riferendosi alle tre cantiche dantesche; fa morire Prisco per mano delle Erinni (le tre dee della vendetta) e gettato nel fiume Cocito, quindi, presenta una Eufemia vendicatrice. Insomma, nulla che possa ricondurci alle passioni del passato e a quelle da me riportate in Appendice”.

Ed entriamo meglio nella vicenda: “Nella seconda (da 898 a 1235 vv.) narra delle vicende di Roberto che, per motivi di studio, sopporta l’esilio (ultro pertulit exilium) allontanandosi liberamente dalla sua città natia, visita varie città d’Italia, per poi fermarsi a Padova, dove ha inizio la sua fortuna. Di questa sua «fortuna» decide di rendere partecipe la sua città, regalandole una patrona, perché ne era priva (nulla commissa Patrono). Entra dunque di notte, in chiesa e, inginocchiatosi in un angolo, supplica la vergine Eufemia, perché gli dia «almeno il velo del [suo] capo, il fermaglio o la tunica» da portare con sé a Montepeloso. Eufemia va oltre la richiesta di Roberto; si stacca il braccio dalla spalla e glielo consegna perché possa portarlo in patria. Dopo aver imbarcato la preziosa reliquia, unitamente ad altri doni, Roberto salpa dal porto di Chioggia. La nave segue la rotta verso Sud con una certa tranquillità, quando, in vista dei lidi pugliesi, sopraggiungono una furiosa burrasca (tempestas atra) ed un vento impetuoso (motu boreali turbine fluctu) che minacciano la incolumità della nave e dei passeggeri. Allora Roberto invoca la protezione di sant’Eufemia: solleva la reliquia in direzione dei venti furiosi e, come per incanto, il mare si placa e la nave riprende la sua rotta. Approda sul litorale barese ed infine sulle colline ubertose di Montepeloso. Ad un certo punto del poema, il Verrone elenca tutti i doni che Roberto porta con sé: un’immagine della Santa a firma del Mantegna, la Dormitio Virginis, un fonte, due statue (Mater Dei e la Sant’Eufemia) che superavano l’ingegno di Fidia e l’arte di Lisippo, il Crocifisso ligneo, tre libri miniati, uova di struzzo. Non viene menzionata la Colonna di Santa Croce – così detta perché sormontata da una croce. Lungo il margine superiore del capitello della colonna vi è una scritta, fa sapere la Gelao, dove compare il nome del committente, Roberto de Mabilia, e l’anno 1454. Si tratta, fa sapere Franco Benucci, di una colonna cimiteriale datata 1453, «commissionata forse da pre’ Roberto per il cimitero della ‘sua’ San Daniele». Il Palermo sulla colonna così scrive: «Vicino alla Porta Maggiore esisteva una chiesa dedicata al Principe degli Arcangeli S. Michele, la quale in tempi a noi / lontani per cagione delle guerre, forse, per avere uno spiazzo / onde assaltare la città venne abbattuta. In seguito / dove stava la detta chiesa vi fu messa una colonna / di marmo rosso di Venezia sormontata da una Croce […] ma poi è stata tolta / e trasportata nella Cattedrale e se ne formerà un / candelabro pel Cereo Pasquale». Giunto in città, Roberto si reca in cattedrale. Sale sul pulpito e mostra il braccio della Santa ai fedeli che innalzano al cielo cori festosi.

E torniamo alla donazione. “Abbiamo constatato – spiega a questo punto Calia – che sia Gelao che Liguori sostengono che si tratti di donazione. Il Benucci, invece, sostiene che le opere d’arte giunte a Montepeloso non facessero parte del progetto di Roberto. «La nostra ipotesi – scrive Benucci – è che le opere d’arte legate al culto di Eufemia, oggi a Montepeloso, non siano state commissionate, realizzate e offerte fin dall’origine per la rinata cattedrale di Montepeloso, ma piuttosto per la chiesa di Sant’Eufemia a Padova». Fallito il progetto, bisognava trovare «una nuova destinazione, insieme ad altri manufatti recuperati da progetti di diverse chiese padovane». Individua in Roberto il «protagonista della raccolta dei manufatti a Padova e del loro inoltro a Montepeloso», nominato forse dal vescovo Fantino «custode delle opere offerte per Santa Fomia e della stessa reliquia messa a disposizione dalla famiglia Dandolo». Si presenta l’occasione di «ricollocare sul mercato l’intero gruppo di opere e cederlo quindi (verosimilmente a titolo oneroso) al Capitolo della cattedrale di Montepeloso», regalando «alla Città una patrona prima mancante», forse «a fronte di una congrua fornitura di grano e olio», di cui «Montepeloso era da sempre un grande produttore». Il Capitolo di Montepeloso, quindi, avrebbe acquistato, con un forte impegno di spesa, tutte le opere d’arte destinate, inizialmente, alla chiesa di Santa Fomia. Ipotesi, questa, che potrebbe pure rispondere a verità, ma contrasta con il titolo che l’Autore ha dato al suo volume, ossia La donazione de Mabilia nella cattedrale di Montepeloso”.

Perché parlare di donazione, mentre poi si sostiene una compra-vendita?

Inoltre, sull’esistenza di una chiesa di Sant’Eufemia a Padova si nutrono forti dubbi.

Non intendo dare giudizi sulle varie e disparate ipotesi avanzate sulla donazione, perché sono e rimangono ipotesi che non hanno alcun riscontro con i documenti sin qui riportati. Per quanto riguarda invece il poema, ripeto il pensiero di F. Halkin, gesuita nonché bollandista. Si tratta di un lavoro d’immaginazione «oeuvre d’imagination»: un bel poema in prosa che non ha niente a che fare con la Storia. Come si può dar credito, appunto, al Verrone che nel 1592 sosteneva di vedere ancora «la vera pelle» rivestire le ossa del braccio, con «i nervi e le unghie», mentre, di fatto, si conservano solo due piccole ossa?”, chiosa Calia.

Ecco un’anteprima. Augurandoci che il lavoro di Calia trovi immediatamente un editore.

NUNZIO FESTA

Nunzio Festa
Nunzio Festa

BREVE NOTA BIOGRAFICA

Nunzio Festa è nato a Matera, ha vissuto in Lucania, a Pomarico, poi in Lunigiana e Liguria, adesso vive in Romagna.

Giornalista, poeta, scrittore.

Collabora con LiguriaDay, L'Eco della Lunigiana, Città della Spezia, La Voce Apuana e d'altri spazi cartacei e telematici, tra i quali Books and other sorrows di Francesca Mazzucato, RadioA, RadioPoetanza e il Bollettino del Centro Lunigianese di Studi Danteschi; tra le altre cose, ha pubblicato articoli, poesie e racconti su diverse giornali, riviste e in varie antologie fra le quali: Focus-In, Liberazione, Mondo Basilicata, Civiltà Appennino, Liberalia, Il Quotidiano del Sud, Il Resto.

Per i Quaderni del Bardo ha pubblicato “Matera dei margini. Capitale Europea della Cultura 2019” e “Lucania senza santi. Poesia e narrativa dalla Basilicata”, oltre agli e-book su Scotellaro, Infantino e Mazzarone e sulle origini lucane di Lucio Antonio Vivaldi; più la raccolta poetica “Spariamo ai mandanti”, contenenti note di lettura d'Alessandra Peluso, Giovanna Giolla e Daìta Martinez e la raccolta poetica “Anatomia dello strazzo. D'inciampi e altri sospiri”, prefazione di Francesco Forlani, postfazione di Gisella Blanco e nota di Chiara Evangelista.

Ha dato alle stampe per Historica Edizioni “Matera. Vite scavate nella roccia” e “Matera Capitale. Vite scavate nella roccia”; come il saggio pubblicato prima per Malatempora e poi per Terra d'Ulivi “Basilicata. Lucania: terra dei boschi bruciati. Guida critica.”. Più i romanzi brevi, per esempio, “Farina di sole” (Senzapatria) e “Frutta, verdura e anime bollite” (Besa), con prefazione di Marino Magliani e “Il crepuscolo degli idioti (Besa).

Per le edizioni Il Foglio letterario, i racconti “Sempre dipingo e mi dipingo” e l'antologia poetica “Biamonti. La felicità dei margini. Dalla Lunigiana più grande del mondo”.

Per Arduino Sacco Editore “L'amore ai tempi dell'alta velocità”.

Per LietoColle, “Dieci brevissime apparizioni (brevi prose poetiche)”.

Tra le altre cose, la poesia per Altrimedia Edizioni del libro “Quello che non vedo” (con note critiche di Franco Arminio, Plinio Perilli, Francesco Forlani, Ivan Fedeli, Giuseppe Panella e Massimo Consoli) e il saggio breve “Dalla terra di Pomarico alla Rivoluzione. Vita di Niccola Fiorentino”.

Per Edizioni Efesto, “Chiarimenti della gioia”, libro di poesie con illustrazioni di Pietro Gurrado, note critiche di Gisella Blanco e Davide Pugnana.

Per WritersEditor, la biografia romanzata “Le strade della lingua. Vita e mente di Nunzio Gregorio Corso”.

Per le Edizioni Ensemble, il libro di poesie “L'impianto stellare dei paesi solari”, con prefazione di Gisella Blanco, postfazione di Davide Pugnana e fotografie di Maria Montano.

Per Bertoni Editore, il libro di poesie “Semplificazioni dai transiti sotto la coda di Trieste”.

Per Tarka Edizioni, il saggio narrativo “Ai piedi del mondo. Lunigiana e Basilicata sulle corde degli Appennini”.

Per BookTribu, il romanzo breve “Io devo andare, io devo restare”.

nunziofesta81@gmail.com.

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