Lo chef di Terranova di Pollino, Federico Valicenti, ha ricevuto il Premio Siris. Lo festeggiamo pubblicando l’intervista che m’ha concesso per il libro “Ai piedi del mondo. Lunigiana e Basilicata sulle corde degli Appennini” (Tarka Editore, 2024).
Federico Valicenti, che si definisce “cibosofo”, è a Terranova di Pollino, dell’altro morso del dio Apollo. Che ascolta il
respiro di Rotonda e quello spuntone alto alto di montagna
condiviso fra Basilicata e Calabria.
Nato a Cersosimo, uno dei più piccoli comuni del potentino, ma residente fin dalla nascita a Terranova, proprio
nel cuore del Parco.
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Lo chef Federico Valicenti vanta un’esperienza decennale nella ricerca e preparazione di piatti tipici della tradizione lucana. Patron e chef del suo ristorante, “Luna Rossa”, situato a Terranova di Pollino, ama definirsi cibosofo
per l’originale approccio alla cucina. È anche consulente
di “Archeogastronomia” e i molteplici corsi di formazione
gli hanno guadagnato una posizione di rilievo nel mondo della gastronomia, sia come relatore che autore di diversi libri tra cui la Guida della Basilicata (De Agostini),
L’atlante della tavola 1 e 2 (Plane), Basilicata a Tavola, a
cura dell’APT-Basilicata, Dalla Tavola lucana al Paradiso
(Magister), Cibando Alighieri Dante (Universosud) e Lucani per sempre (Eds); oltre a numerose pubblicazioni di
settore. Ha collaborato alla divulgazione della cultura alimentare lucana tramite rubriche online e partecipazioni a
numerosi programmi televisivi.
Nel ristorante si respira una bella atmosfera accogliente. Il menù è ricco di piatti della cucina tradizionale locale
rivisitati in chiave moderna. Il risultato è un menù semplice ma dai sapori gustosissimi. In questo accogliente posto
affacciato su una delle splendide valli del Pollino, Federico
Valicenti esibisce una curatissima cucina di tradizione adattata alle evoluzioni del gusto, che non perde la nitidezza
della grande qualità degli ingredienti – quasi tutti delle terre di Basilicata – frutto della meticolosa ricerca del patron.
Che non è solo ricerca di qualità (indiscutibile) ma anche
ricerca storica e di costume sulle materie prime che hanno
caratterizzato la vita e le tradizioni alimentari in quest’angolo del Sud Italia, dove si respira ancora un’atmosfera di
genuinità e di pulizia non facilmente riscontrabile altrove.
Alle paste fresche, alle verdure, alle carni e ai formaggi dei
pascoli valligiani, tipici “fondamentali” della cucina meridionale, la “Luna Rossa” aggiunge una cura nella preparazione che è qualcosa in più della buona cucina: è cultura
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che si tramanda esprimendosi, in questo caso, al meglio.
Da assaporare, oltre ai peperoni cruschi, la mitica ciambottella, un contenitore di pane ripieno di verdure e sormontato da una polpettina di pane e salsiccia lucanica, la carchiola di farina di mais con porcini e uovo che c’è ma
non si vede, con il tortino di patate alle 9 cose della vigilia
di Natale, la pasta di mischiglio che affonda le radici nella
preparazione con farine di legumi, le pettulat al vino rosso
di origine harbereshe, il filetto di maialino su una crema di
cavoloverza al profumo di arance, e per finire il tiramiSud
con castagne e il raviolino antico ripieno di passato di ceci
e vin cotto, anche lo splendido contesto del paesaggio che
si gode dalla balconata.
Federico Valicenti ha un pregio: quello che crea in
cucina, prendendosi tutto il tempo necessario, lo fa con
passione e, quando trova elementi che arricchiscono la sua
filosofia del cibo e dello stare insieme, suonano pentole,
casseruole e mestoli come campane a festa. E la conferma
di questo modus operandi e vivendi ce lo ha dato l’ultimo
lavoro Dalla tavola al Paradiso, che è il titolo di una sua
pubblicazione cartacea sulla cucina ai tempi di Dante e con
quello che secondo lui mangiò Dante, che abbiamo letto
pagina dopo pagina assaporando ingredienti, pietanze, tra
pagine dei sacri testi religiosi (dalla Bibbia al Corano) ed
eventi storici e tradizionali: dalla Settimana Santa al Ramadan, dal Carnevale al Natale, dalla festa dell’Assunta alla
commemorazione dei Defunti collegando l’area mediterranea all’Est europeo e al Sud-America. Se pietanze di grano
bollito come i “collivi”, simbolo di vita dopo la morte, preparate tra fine febbraio e inizio marzo, per la Quaresima,
sono da collegare alla “coliva” romena, significa che la cultura dei popoli è accomunata a tavola da un sentire comune. E con la semplicità rituale e preparatoria che contraddistingue le nostre genti, ma partendo e pasteggiando con
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prodotti poveri ma nutrienti che le massaie prima di tutto e
poi i cuochi hanno preparato per secoli in famiglia nel solco di una identità svilita e stravolta dalle maratone tv e di
piazza commerciale dei cookingshow o dello starchefsystem.
Il lavoro di una persona, coscienziosa e solare come Federico Valicenti, che per noi resta il “cuoco” conosciuto a
Terranova di Pollino (Potenza) durante la Prima Repubblica, è uno stimolo a guardare al “da dove veniamo?” al “Cosa
lega spiritualità, religione, tradizione, genuinità e filosofia
di vita?”. E spunti interessanti per capire questo percorso
vengono dalle ricercatrici Libera Valicenti e Simona Bonito con un antipasto di citazioni, riferimenti che aiutano a
stimolare i cinque sensi a tavola e a ripristinare quello spirito di convivialità stravolto della dimensione “isolazionista”
creata dai social e da quella presenza fastidiosa – a tavola
– di smartphone e tablet. Andrebbero, anzi, a tavola quegli
attrezzi dell’innovazione da sempre connessi alla ricerca del
“campo” perduto – quando non c’è segnale – vanno spenti. Una foto va bene. Ma un piatto di lagane ricce con la
mollica che Federico descrive e consiglia per san Giuseppe,
insieme alle zeppole, merita di essere gustato nella pienezza
dei sapori e con un bicchiere di vino, per confrontarsi con
gli altri commensali con i commenti tradizionali. “Buono… noi ci aggiungiamo anche una goccia di olio santo…
mia madre che era di Bella pure una scorza di formaggio…
Però fa bene… Oggi con tutti questi cibi artificiali… ma
non si ha tempo. Una volta…” Sono alcune delle frasi della
cultura dello stare insieme e di gustare i piatti di una volta
che non hanno prezzo e che non possono essere sostituiti
da nessun prodotto commerciale rappresentato da questo
o quello chef “stellato” che prepara piatti soprattutto belli
da vedere, perché oggi l’immagine è tutto, ma non è supportata da valori. Metteteci pure la foglia di prezzemolo, la
goccia di aceto balsamico, l’onnipresente peperone crusco
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e la carota o patata decorata, ma mancano anima e storia
del cibo e dei territori. Provate a entrare nelle cucine dei
monasteri, in un caciolaio, un vecchio mulino, un frantoio,
una casa colonica segnati dal fumo o dalla presenza di un
crocifisso, di una edicola votiva o dal ritratto di un santo o
di una santa e vi verrà voglia, come è capitato a Federico, di
chiedere degli uomini e della loro spiritualità e del legame
con il cibo, spesso povero ma benedetto. Un viaggio a ritroso nel tempo che porta al Paradiso della buona e semplice
tavola dei popoli.
Federico Valicenti è del 1958. In primavera. Creativo,
ostinato, caparbio, determinato.
Federico Valicenti è lucano, certo. E della lucanità è
un ambasciatore. Riconosciuto nel mondo. Federico è uno
chef famoso ma è insufficiente questo magnifico riconoscimento per descriverlo bene.
Federico ha un’anima politica molto critica. In un’altra vita avrebbe potuto assurgere a ruoli politici. Spesso è
stato sfiorato dalla politica. Non lo dice apertamente ma
lui detesta la politica quando è mediocre e mal sopporta la
mediocrità di certi politici. Ed è timido. Preferisce le carezze alla spada. Ama le nenie e le fiabe, i racconti dei nonni
davanti al camino. Ma, come tutti i lucani doc, si lascia
contaminare da due elementi fisici. Il viaggio, che è avventura, conoscenza. E il ritorno, che è racconto, sicurezza,
casa, rifugio.
Federico, partiamo con una domanda che è a metà una mia
curiosità. Che significa “cibosofo”? Chi è un cibosofo? Siamo
oltre lo chef stellato, a una cosa diversa, penso a un passo ulteriore. Non è che sei diventato troppo radical chic?
F.V.: La mia cibosofia è il racconto del territorio attraverso
il cibo. Non ha valore accademico né tantomeno intende
diventare materia di studio, ma è soltanto un approccio
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intellettuale al mondo del cibo. Alla ricerca di forme di
comunicazione, leggendo e scrivendo di racconti, tradizioni e riti di cui ci nutriamo, non solo in termini fisiologici
ma soprattutto culturali, ho avuto la possibilità di coniare
questo neologismo, cibosofia. L’intento è coniugare, legare
il mondo degli uomini alla gastronomia, ai suoi rapporti
con il territorio per comprenderne meglio le migrazioni,
il viaggio.
Conosciamo pensieri e azioni di grandi uomini ma
poche volte abbiamo messo in risalto le influenze che su
di loro ha avuto la cultura del cibo. Grandi filosofi hanno
usato i prodotti della terra per raccontare la vita, per far
comprendere quanto siano collegati, più di quanto si pensi,
la gola e il cervello. Gli antichi filosofi raccontano dell’insipienza della cultura se non si condisce “cum grano salis”,
quelli contemporanei hanno compreso che con la globalizzazione dei sapori si rischia anche l’omogeneizzazione dei
saperi, che non esiste un futuro letterario multiforme.
Il cibosofo preferisce le utopie delle terre promesse dove
scorre sempre latte e miele, l’utopia alimentare pregna di
identità che ripristina l’unione con il seno materno, con la
Terra Madre. La mente del cibosofo, anche quando viene a
essere spinta verso ascetici propositi, continua a nutrirsi di
cibo anche solo in modo figurato, il pensiero si condensa in
parola che lievita come il pane e si trasforma nella metafora
del corpo fatto cibo e del sangue fatto vino, che si dona
simbolicamente all’umanità. Uomini come Carlo Petrini
con il libro Sano pulito e giusto e papa Francesco con Laudato si’ stanno riscrivendo l’ordine morale del mondo attraverso l’uso del cibo sano e consapevole, trasformandolo in
mezzo di comunicazione.
Il filosofo contemporaneo Andrea Tagliapietra, ordinario di storia della filosofia, nel suo La gola del filosofo. Il
mangiare come metafora del pensare, ci aiuta a comprendere
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il valore del mangiare come metafora per vivere meglio e
bene. La parola e il cibo diventano parafrasi dei saperi e
sapori, si mescolano nel nostro linguaggio, li usiamo disinvoltamente nel lessico familiare, metabolizziamo e usiamo
spesso, e quasi sempre inconsciamente, parole e verbi rubati
al vocabolario, creiamo nuovi neologismi, nuovi aggettivi.
Quando relazioniamo abbiamo fame di conoscenza,
sete di saperi, quando leggiamo o ascoltiamo ingoiamo
informazioni, divoriamo racconti, facciamo indigestione
di dati. Quando ci proponiamo agli altri non siamo mai
sazi di parlare, mastichiamo un po’ di lingue antiche, aggiungiamo alle parole un pizzico di sale per renderle meno
noiose, usiamo aneddoti pepati o piccanti per rendere il
concetto, il discorso appetitoso, cercando di trovare parole
gustose per rendere credibile e attento il discorso.
Come in un gioco di specchi la cultura del cibo e del
linguaggio si riflettono, le parole e i suoni escono dalla bocca e gli alimenti, le pietanze entrano, cosi nel palato fatto di
sensi cibo e parola s’incrociano e di rimando ordinano un
intricato processo metabolico, ruminiamo progetti, digeriamo concetti, assimiliamo certe idee piuttosto che altre.
Ci ubriachiamo di storie narrate con parole dolci, rigettiamo i racconti conditi di battute acide e disgustose, pieni
di allocuzioni insipide che ci spingono ad amare considerazioni. Cosi la comune dimora nella bocca della lingua
e delle corde vocali, della gola e della parola, il cibarsi e il
parlare si trasformano in comunicazioni cibosofe dove la
raffinata descrizione e l’elaborazione del gusto producono
la letteratura dei sapori, collante imprescindibile alla nascita della gastronomia.
Il piacere del cibosofo viene espresso, attraverso i simboli, su dei percorsi con binari paralleli: il primo è l’arte
culinaria, quindi l’estetica che si esprime sul piacere visivo,
il secondo è affettivo, legato alla memoria dei profumi che
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rimandano al sapore del piacere. La figura del cibosofo permette così di individuare nel rapporto fra il cibo e la parola,
fra l’alimento e l’estetica, l’antica figura del nutrimento che
si trasforma in cultura, dove scrivere è come cucinare e leggere è come mangiare.
Brillat-Savarin scriveva in Fisiologia del gusto che “il piacere della mente e della gola sta nel cogliere il particolare
sapore della coscia sulla quale la pernice si è appoggiata nel
sonno”. Francesca Rigotti, autrice di un delizioso volumetto La filosofia in cucina. Piccola critica della ragion culinaria
racconta che cucinare alla presenza del fuoco significa separare e ricomporre le materie prime in forme ordinate e
secondo rituali precisi che compongono i cibi. Così come
lo spirito “solvet et coagulat”, gli elementi si uniscono e si
dividono, le cose si assimilano o si separano fra loro.
La cucina non è un universo caotico, in cui tutto e il
contrario di tutto possono essere mischiati, come in un
unico calderone ove cuoce il terribile minestrone del brodo
universale. La cucina è un sistema chiuso, dotato di rituali
e regole precise, che vanno rispettate, oppure violate, ma
solo dopo esser state ben apprese. Queste regole e questi
rituali si chiamano ricette. Scrivere ricette, ordinarle, mettere insieme alimenti ed elementi, scomporre e dividere per
poi riunire non è una cosa semplice, non è da tutti. Bisogna
essere gola e verbo, pluralisti nel mangiare e nel parlare,
pronti a ogni provocazione e ad ogni consacrazione.
Avresti potuto andare ovunque con le tue capacità. Perché sei
rimasto in Basilicata?
F.V.: Io sono nato in questa terra, da ragazzo è stata proprio la curiosità che mi ha spinto a muovermi, come tutti
i lucani che vogliono uscire da questi ameni paesini e scoprire cosa c’è fuori. Erano gli anni Sessanta e Settanta, anni
di grande fioritura e fermento: poi è chiaro che dipende
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molto dalla propria forma mentis e dalla cultura. Il primo
libricino che ho letto non è stato Cappuccetto Rosso, ma Il
Gabbiano Jonathan Livingstone, e mi ha rovinato la vita!
Mi ha proiettato nel mondo, mi ha spinto a girare l’Italia
prima e l’Europa poi, in autostop (ero un po’ un freak) e mi
divertiva girovagare in questo modo.
Poi sono ricapitato qui per caso, o meglio, perché c’è
stato il terremoto negli anni Ottanta, altrimenti io qui non
sarei mai voluto tornare. Ho abitato a Roma e poi a Vimodrone, un paesino che si trova nei pressi di Milano, avevo
deciso di restare lì nell’hinterland milanese, ma ci sono rimasto solo tre mesi – e ora devo dire per fortuna.
Per via del terremoto sono tornato e ho avuto questa
folgorazione per la cucina, ben lontano dalla via di Damasco. Non sapevo cucinare, non sapevo friggere un uovo!
Mi sono inventato questo lavoro e dopo 40 anni ancora
non ho capito bene cosa e come ho fatto, perché non aveva
nessun senso aprire un ristorante nel 1981 a Terranova di
Pollino. Sono quei percorsi nella vita che uno decide di
fare, ma sai che è un azzardo.
Ho imparato qui. Da solo, andando in giro a raccogliere testimonianze dai contadini, dai pastori, dagli agricoltori
e anche da alcuni clienti, ma non c’è un programma razionale alla base di tutto questo. Sono andato alla ricerca dei
piatti, delle tradizioni culinarie e ho cercato di trasformarle
senza tradirle: come se le ripulissi, perché certo non si può
più cucinare come si faceva cento o trecento anni fa, è cambiato tutto. Ma se trovo un piatto particolare lo riformulo,
cerco di sgrassarlo, di renderlo più affine al palato di oggi.
Per esempio, le costolette di maiale con le fave: la cosa che
più mi ha incuriosito non è tanto il piatto in sé, quanto
piuttosto il fatto che la contadina che mi ha insegnato questo piatto mi ha detto che bisognava cuocere insieme fave
e carne e che, quando la carne si stacca dall’osso in cottura,
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allora anche le fave sono pronte – cosa che detta così mi
faceva ridere… questi metodi di cottura, diciamo così, un
po’ particolari… ma io le ho fatte ed è proprio così. Allora
ho preso questa ricetta, e questo “segreto di cottura”, e l’ho
pulito, se così si può dire, per renderlo meno pesante: faccio un filetto di maiale cotto su sale di miniera, che è un
sale particolare che vado a prendere a Lungro, nella piana
di Sibari, dove c’è questa salina ormai chiusa, ed è più ricco
di potassio e sodio e a mio parere non asciuga le carni.
Ma questa è tutta una mia idea, non è che ci sono dei
trattati di cucina su cui ho studiato questa cosa: non vengo dalla scuola di cucina che mi ha preparato in un certo
modo, con un certo tipo di tecnica. Per esempio, non amo
molto fare le basi del soffritto, sedano carota cipolla, quando faccio i sughi vado direttamente con il pomodoro e l’olio, perché questo non appesantisce, non copre il gusto del
pomodoro vero, che a me piace sentire in bocca.
So che guardi Dante da un’angolazione molto particolare. Potresti spiegarmela meglio?
F.V.: Colpa e merito di mia figlia Ida, a cui probabilmente ho trasmesso la dote della curiosità e della conoscenza.
Lei, presidente della Dante Alighieri di Bucarest dove vive,
un giorno mi chiese se avessi mai letto di Dante e del suo
rapporto con il cibo. Incuriosito iniziai a leggere Dante da
un punto di vista gastronomico. Naturalmente sono rimasto affascinato dalla lettura di quel periodo storico, il
1200/1300 sono secoli importanti di cambiamenti culturali, lo spopolamento delle campagne verso le citta segna
anche l’inizio di una rivoluzione demografica, delle migrazioni. Federico II, Francesco d’Assisi, Ildegarda de Bingen,
l’uso del cibo come elemento curativo, gli insediamenti
monastici, le università, le scuole mediche, l’uso delle piante alimurgiche, delle spezie, una sorta di nutraceutica ante
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litteram. Poi la storia di Dante ha fatto il resto. “Alighieri
Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estorsive, proventi illeciti, pederastia,
e lo si condanna a 5.000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia)
e se lo si prende, al rogo, così che muoia.” Dante si vede
costretto ad andare via da Firenze per colpa della politica di
Roma “dove ogni giorno Cristo viene mercanteggiato”, che
ha delegato alla Francia il ruolo di guida della sua città e accusa i fiorentini presenti nella città eterna, e in particolare
papa Bonifacio VIII, del suo esilio. Dopo 700 anni ognuno
di noi potrebbe far proprio questo editto, certamente non
è la stessa cosa emigrare ed essere esiliato, ma assume lo
stesso dolore se lo riflette su se stesso.
Sovente si emigra non per proprio volere ma per costrizione, quindi il parallelo tra emigrante ed esiliato potrebbe
reggere. “Tu lascerai ogne cosa diletta / più caramente; e
questo è quello strale / che l’arco de lo essilio pria saetta. //
Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è
duro calle / lo scendere e ’l salir per l’altrui scale” (Paradiso
XVII). Quanto dolore e quanta amarezza in questo canto
dantesco, quanta moltitudine di gente si ritrova in questo
lamento, rimembra questo martellante canto d’addio ai
suoi averi, ai suoi cari.
Quanti Dante dell’Appennino sono stati costretti ad
andare via dalla propria terra, dalla propria casa, dal proprio luogo. Il Dante Appennino, l’esule, l’emigrante, l’arrabbiato, che cammina per monti e pianure alla ricerca di
una nuova vita, un nuovo percorso fatto di incognite e di
incertezze con la testa piena di angosce da trasformare in
certezza, con le tasche vuote ma anche piene di orgoglio, di
rivalsa. Emigrare significa perdere affetti del luogo nativo,
dei beni e finanche della vita. Per Dante l’esilio è morte
civile, essere banditi è morte morale, condannato a morte in contumacia è fisica. Quindi emigrare, come l’esilio è
come spegnere una parte di se stesso, e diventa un lutto da
elaborare. Per l’emigrante il legame, il cordone ombelicale
che lo tiene legato alla sua terra è il desiderio del ritorno,
mentre in Dante è la conoscenza, la scrittura dei trattati e
della Divina Commedia, un’opera che lo lascia vivo anche
dopo la morte.
L’esilio è andare via, è una perdita. “Che la dritta via mi
era smarrita” (Inferno, I). Che possiamo usare come pretesto per parlare dell’Appennino che Dante ci descrive come
luoghi ricchi di cultura, tradizione e natura. Dante, il guelfo fuggiasco, abbandona Firenze ma da questo addio trae
forza e nuova linfa fuori dal Municipium, alla scoperta di
un territorio di cui comprende complessità e potenzialità.
L’ambiente incontaminato, i suoi paesaggi, i fiumi, le montagne, le lingue e le tradizioni regalano a Dante forti suggestioni di conoscenza, bellezza e poesia. “Non altrimenti
stupido si turba / lo montanaro, e rimirando ammuta,/
quando rozzo e salvatico s’inurba, / che ciascun’ombra fece
in sua paruta; / ma poi che furon di stupore scarche” (Paradiso, XVII). Non meno stupito è il montanaro, ammutolito e fissandosi tutto intorno a lui quando rude e rustico
entra in una città, di quanto ogni sfumatura sembrasse dalla sua espressione.
Cosi come l’emigrante, tra un albero di olivo e un tralcio di vite dentro l’eterno ciclo del tempo, l’esule si cala nel
tessuto sociale del territorio che visita e cerca di carpirne
le potenzialità. Lungo il suo avventuroso cammino al di là
degli Appennini in cerca di protezione trova l’ispirazione
per scrivere la sua opera più celebre, la Divina Commedia.
“L’essilio che m’è dato, onor mi tegno “(Rime, 47).
L’esilio, cosi come l’emigrazione, si trasforma in pellegrinaggio, come una condizione spirituale privilegiata che
consente all’uomo di intraprendere un cammino di verità
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contro la mondanità delle città. Dante trasforma l’esilio in
un valore politico, etico e religioso trasformandosi nella
narrazione in guida d’eccezione.
Un curioso aneddoto vede protagonista Dante, invitato a corte da Roberto d’Angiò, figlio del re di Napoli nel
1309. Dante, allora esule a Lucca, invitato alla corte Angioina si presentò al banchetto vestito in maniera dimessa.
Re Roberto ci tiene molto all’etichetta e quando vede arrivare il poeta vestito con negligenza, “Come solean li poeti
fare”, lo fa sedere in fondo al tavolo, con gli ospiti di rango
inferiore. Dante, torvo, non batte ciglio, ma appena finito
di mangiare si alza e lascia la città. Re Roberto realizza di
aver trattato male il grande poeta e gli invia un messaggero
con un nuovo invito. Dante accetta e si presenta a corte
con vesti così ricche che il Re gli fa assegnare uno dei posti
d’onore. Ma appena arrivano le vivande Dante comincia
a rovesciarsi addosso cibi e vino sui suoi bei vestiti. Al Re
che, sbalordito, gliene chiede ragione, il poeta risponde:
“Santa Corona, io cognosco che questo grande onore ch’è
ora fatto, avete fatto ai panni miei e pertanto io ho voluto
che i panni godessero le vivande apparecchiate”.
Questo aneddoto che permette di descrivere la componente appenninica dell’esperienza biografica del sommo
poeta non è solo curiosità, ma mette in risalto l’agiata vita
della borghesia dei Comuni e la vita artistica dei feudi. Se
i Comuni si collocano sotto il segno dello sfarzo, del profitto, l’Appennino ricade sotto quello dell’onore. I luoghi
dell’Appennino accarezzati dalla storia e dalle leggende, di
narrazioni e avvenimenti, di trame e vicende, di echi che
ancora vivono, diventano luoghi dell’anima. Dante racconta che la bellezza e la ricchezza dell’Appennino hanno un
passato di enorme valore che deve guidare la conoscenza
del presente e indicarci il futuro.
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La cucina medioevale, quella delle corti e quella popolare, che
cucina era? Quali differenze ci sono con quella di oggi? Come
è cambiata la cucina dai cuochi di allora agli chef di oggi?
F.V.: Bisogna uscire fuori dal concetto di cucina casereccia,
bisogna passare dalla cucina tipica a quella topica: è il territorio che parla in cucina. Ho fatto una start-up a Roma e
la cosa più bella di quell’esperienza è che mi ha consentito
di andare in giro per tutto il Lazio a cercare i prodotti di
quella Regione: trovare il prosciutto di Bassiano, il conciato di San Vittore, che è un formaggio straordinario, la
farina di un mulino che macina a pietra nei pressi di Rieti
oppure il salame di Monte San Biagio dove ancora si usa
il coriandolo, mi ha consentito non solo di approfondire
questi aspetti di quel territorio, ma di ritrovare anche dei
punti in comune con la cucina lucana.
Il coriandolo, per esempio, mi riporta in Basilicata,
dove ci sono dei paesi che in cucina lo usano molto, perché è una spezia di origine longobarda. Questo crea una
commistione topica, appunto: le regioni parlano tra loro
attraverso questi ingredienti che segnano i passaggi delle
popolazioni nella storia attraverso l’Italia.
Il Lazio ha sempre parlato col mondo, perché c’è Roma.
E oggi abbiamo una nuova possibilità di rinforzare e ampliare questa “conversazione”, gli immigrati non vengono
a prendere da noi qualcosa, ma portano la loro esperienza. Per esempio, il peperone fu portato dagli arabi, ma la
sua trasformazione in polvere di peperone, quindi paprika,
probabilmente arrivò con l’ondata migratoria degli albanesi nel Cinquecento. È un peperone che ha una struttura
molecolare unica, diversa da tutti gli altri peperoni, si disidrata completamente, e questo fa sì che il picciolo non
si stacchi dal frutto, a differenza di un peperone astigiano
o di un cornetto napoletano. Disidratandosi diviene gommoso, non commestibile, allora il lucano lo frigge in olio
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caldo e diventa come le chips, croccante. E non è da tutti
saperlo cucinare. Ma questa ricetta non è araba, il crusco
non è una ricetta antica, e questo perché fino ai primi del
Novecento l’olio non si usava per friggere, perché era un
prodotto prezioso, quindi si usava la sugna, lo strutto che
ha un punto di fumo molto basso e non frigge. Se si cucinano le patate nella sugna non diventano croccanti, infatti.
Ma non si può non friggere questo peperone, quindi mi
chiedevo come potesse essere nata questa tradizione, e mi
sono messo dietro alle transumanze.
Ho scoperto che durante queste migrazioni stagionali i
pastori si portavano dietro i peperoni secchi e li cuocevano
prendendo tra le dita il picciolo del peperone e facendoli
roteare sulla fiamma. Con questa tecnica il peperone si inturgidisce, poi si gonfia, poi viene frantumato con le mani
e usato per condire carni, pasta, insalate, salame.
La cannella e i fiori di garofano sono presenti in Basilicata almeno dal Cinquecento.
Il finocchio è un altro protagonista della tavola qui da
noi e questa abitudine è riconducibile all’influenza della
scuola medica salernitana, dove la tradizione erboristica era
fortissima. Il finocchio è veicolatore di massa intestinale,
e ci sono almeno venti tipi di ombrellifere che si usano
ognuna per un diverso tipo di preparazione. Dall’aneto al
coriandolo, al finocchietto adatto per la salsiccia piuttosto
che per altre carni o per i biscotti.
Il cumino viene dalla stessa famiglia, e sono tutte erbe
arrivate con gli arabi. Noi siamo arabi, siamo spagnoli. Siamo bizantini anche, e la traccia del loro passaggio sta nella
grande tradizione del mosto cotto, ho trovato ricette come
gli spaghetti sottili cotti nel mosto o il baccalà arraganato
e poi condito col mosto, i peperoni ripieni di mollica di
pane, alici e mosto cotto. E per spezzare il sapore troppo
dolce ci si mettevano pezzettini di mele cotogne. Poi è arrivato il pomodoro nell’Ottocento, che ha un po’ livellato
tutto con la sua grande versatilità.
Mentre la tradizione dolciaria è scarsa, ma perché sono
paesi di montagna, dove non c’è grande tradizione in questo senso. L’influenza forte poi l’abbiamo avuta dal Regno
delle due Sicilie, quindi più che altro dolci con le glassa,
l’unico dolce tipico della Basilicata potrebbe essere il cosiddetto Cuscinetto di Gesù Bambino, che si fa a Natale
con un passato di ceci, cannella e cioccolato avvolto da un
raviolo e fritto.
Come definiresti la cucina lucana? Questa cucina insomma ha
oggigiorno una sua precisa identità?
F.V.: La cucina lucana è una cucina particolare, mista di
varie tradizioni perché è un ricettacolo, nel senso più nobile della parola, di popoli, di culture diverse. Per andare dal
nord al sud, da occidente a oriente si è dovuto passare dalla
Basilicata, attraversarla quindi contaminarla. Le ricette antiche dei paesi si trasformano in narrazione, ci raccontano
le cucine arabe, ebraiche, francesi, longobarde, spagnole,
bizantine. Tanti pensano che sia una cucina greve, pesante, campagnola. Non è così. Ci sono molte verdure tra gli
ingredienti, ma i metodi di cottura soprattutto sono affascinanti. Un tempo la carne di maiale si cucinava facendola stare per due o tre ore nell’acqua fredda, perché questo
faceva affiorare il grasso e andar via i residui di sangue, e
poi veniva messa in padella e portata a bollore, schiumata,
asciugata e solo dopo veniva condita con le spezie. Stessa cosa per il capretto, per l’agnello, che venivano messi a
cuocere prima in acqua, poi soffritti e insaporiti nelle “sartanie”, padelle di ferro, cosa che alleggeriva tantissimo il
piatto esaltando il gusto delle carni.
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Sogni ancora come ti capitava da giovane? Fantastichi sui desideri?
F.V.: Assolutamente sì! Non spengo la mia luce di conoscenza e di curiosità. Il prossimo progetto è l’apertura della
Accademia della Cibosofia su cui sto lavorando da anni,
soprattutto per trovare una location adatta per il tipo di
eventi che voglio fare. Spero di averla trovata in una parte di un castello. In questa mia Accademia della Cibosofia
sono collocati la scuola di Cucina Magna Grecia, il Centro
di Documentazione delle Gastronomie del Mediterraneo,
un Archeo-Store di prodotti tipici con ricette antiche e il
Teatro dei Cibosofi dove attori racconteranno il cibo e chef
cucineranno il cibo raccontato in una sorta di interazione
tra cibo e racconto, tra gola e cervello, rifacendosi un po’
agli antichi simposi greci. Eventi e cene tematiche dedicate
ai prodotti tipici lucani e del Mezzogiorno d’Italia, alla loro
storia, produzione, degustazione e al loro uso in cucina con
uno showcooking attraverso la narrazione dettata dal “Boccavolario del Cibosofo”.
Un progetto ambizioso ma di sicuro effetto sul territorio.
La tua Terranova. Il Pollino. Parco e montagna, Terra. Basilicata. Cosa c’è che non va ancora? Cosa ci manca per una
sfida vera?
F.V.: Una cosa certa è che nelle aree interne il fermento esiste ma nessuno riesce a intercettarlo, catalogarlo, guidarlo,
per il semplice motivo che non lo percepiscono, non lo
sanno. Le aree interne sono abbandonate a essere interne e
basta, eppure si muovono, si organizzano per essere ascoltate, si propongono. Ma i capoluoghi di regione sembrano
città accartocciate su se stesse, piene di problemi. Problemi
che di sicuro non hanno generato le aree interne! Accartocciandosi si allontanano sempre di più da quello che potrebbe trasformarsi anche in risoluzione dei loro problemi. Se
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solo avessero il coraggio di guardare le aree interne come
potenzialità espressive di una regione custode del tempo,
delle tradizioni, dei percorsi culturali avrebbero risolto la
metà dei problemi in cui si sono imbrigliati.
Ultimamente è stato siglato un accordo tra nove comuni che fanno rete per inserire in un sistema di conoscenza
e di promozione i Riti Arborei, per riprendere un circuito
che fa della memoria degli uomini e della conoscenza del
territorio un punto di forza, dove l’unione tra territorio e
uomini diventa simbiosi, energia, cultura. I Riti Arborei
diventano eventi folcloristici quando vengono guardati con
gli occhi delle metropoli, ma, se si trasformano in momenti
di aggregazione, condivisione ed espressione culturale delle
aree interne, diventano veicolo di promozione e conoscenza dei territori con effetti collaterali di imprevedibili sviluppi per le aree.
Le identità che ci vivono possono agire perché hanno
dalla loro il tempo che altri non hanno, tempo da perdere
che diventa straordinariamente positivo perché si inserisce
nel concetto di slow life, di vita lenta come recupero di se
stessi e del tempo che nessuno ha. Ecco! le aree interne
hanno tempo da perdere come valore, come principio,
come vita. Le città dall’alto del tempo che non hanno più
non riescono a vedere le cose vicine che potrebbero portare
anche loro lontano, nel tempo.
Ami viaggiare, ma poi senti dentro, sempre, il bisogno di ritornare.
F.V.: Perché soffro di Lucanite! La Lucanite, termine coniato dal caro amico Giacomo Armentano, si impadronisce delle antiche Agorà e le trasforma in viaggi sensoriali.
Invaso dalla Lucanite descrivo una terra dedicata a tutti
coloro che pensano al viaggio come a una scossa di natura
culturale che fa vibrare la propria capacità di sentire la vita
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fino in fondo. Raccontare la Basilicata che parla ai cinque
sensi, che li sfiora, li tocca, li fa vivere in una dimensione
oramai dimenticata, con i nostri tempi lenti fatti di spazi
visivi immensi, di suoni ancestrali, di odori dimenticati, di
sapori antichi, di tatto emozionale.
La Lucanite si trasforma in seduzione e io, sensibile a
tutte le seduzioni, non ho sprecato molto tempo nel convincermi di esserne ammaliato. E così ho raccolto l’invito.
La Basilicata anticamente nuova mi affascina, la raccolgo,
la racconto, la cucino. Preparo nelle Agorà del mondo l’insalata di arance “staccia” della Magna Grecia, con pallaccio
(toma) del Pollino, sale pepe e olive nere di Ferrandina,
scaglie di peperone crusco di Senise, a filo di olio extra vergine del Vulture.
Voglio far conoscere una Basilicata multicromatica, di
sapori antichi ma nuovi, profumi intensi e coinvolgenti,
sapori decisi e tenui, che accarezzano il palato e stimolano
la mente, nel cibo dei colori. Una Basilicata diversamente
attraente, moderna. Ricca di tradizioni antiche, pronta ad
accogliere sassi lanciati nello stagno avvilente dell’omogeneizzazione gastronomica, sensoriale, tattile, culturale. Sassi che producono cerchi che si accavallano, si inseguono
fino a straripare dalla melma fangosa dello stagno e, catturandone la riva, accarezzano le orchidee selvatiche.
La Lucanite raccoglie gli umori della terra, proietta
nell’aria i colori confondendo il colore azzurro del cielo con
il chiaro dell’acqua, del sole riflesso sullo specchio, fermo
e immobile, crea una moltitudine di piccoli irreali arcobaleni. Osserva la natura cangiante, dove popoli multietnici
l’hanno attraversata, raccogliendo e spandendo cultura,
ascoltando il loro ansimare, i loro aliti di storia delle civiltà
che con il loro respiro hanno creato il vento che accarezza
i visi e fa mancare il proprio di respiro, unendolo a tutti
i respiri del mondo. Vento che soffia dalle montagne dei
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piccoli paesi, che racconta le fiabe e le storie di magie e fascinazioni, di maghi e magiare, di camini accesi al borbottio
della legna e al mormorio di pignatte piene di leggende, di
ori nascosti sotto arcobaleni in vasi di terracotta mai raccolti. Luoghi incontaminati, intrisi di spiritualità e carichi
di simboli come se fosse un museo sempre aperto, sempre
in movimento, che offre emozioni e sprigiona adrenalina al
pari del calare sul viso un passamontagna.
Le storie, le leggende appartengono ai popoli. Raccolgono i suoni degli otri e di tamburi fatti di pelle di capra, di
fischi di canna, di grossa chiave battente su bottiglie ormai
vuote. Passi veloci di danza accompagnano la musicalità
dei suoni, vertiginose piroette cerchiano la nuda terra con
passi elicoidali, veloci sguardi affamati di desiderio si incrociano, si intersecano tra di loro, calde bave, languide
lacrime diventano gocce che bagnano e arano nel solco del
desiderio, si trasformano in un dolce veleno che inebria il
corpo e confonde la mente, fluttua nel sangue, lo rende
partecipe di emozioni.
Dalla montagna scendono le parole, le voglie prendono corpo, si inebriano di caldo, parlano di colori ocra che
omaggiano il sole. I racconti dei vicini si confondono con
i sapori e i profumi. Perché dovrei lasciare una terra così?
BREVE NOTA BIOGRAFICA
Nunzio Festa è nato a Matera, ha vissuto in Lucania, a Pomarico, poi in Lunigiana e Liguria, adesso vive in Romagna.
Giornalista, poeta, scrittore.
Collabora con LiguriaDay, L’Eco della Lunigiana, Città della Spezia, La Voce Apuana e d’altri spazi cartacei e telematici, tra i quali Books and other sorrows di Francesca Mazzucato, RadioA, RadioPoetanza e il Bollettino del Centro Lunigianese di Studi Danteschi; tra le altre cose, ha pubblicato articoli, poesie e racconti su diverse giornali, riviste e in varie antologie fra le quali: Focus-In, Liberazione, Mondo Basilicata, Civiltà Appennino, Liberalia, Il Quotidiano del Sud, Il Resto.
Per i Quaderni del Bardo ha pubblicato “Matera dei margini. Capitale Europea della Cultura 2019” e “Lucania senza santi. Poesia e narrativa dalla Basilicata”, oltre agli e-book su Scotellaro, Infantino e Mazzarone e sulle origini lucane di Lucio Antonio Vivaldi; più la raccolta poetica “Spariamo ai mandanti”, contenenti note di lettura d’Alessandra Peluso, Giovanna Giolla e Daìta Martinez e la raccolta poetica “Anatomia dello strazzo. D’inciampi e altri sospiri”, prefazione di Francesco Forlani, postfazione di Gisella Blanco e nota di Chiara Evangelista.
Ha dato alle stampe per Historica Edizioni “Matera. Vite scavate nella roccia” e “Matera Capitale. Vite scavate nella roccia”; come il saggio pubblicato prima per Malatempora e poi per Terra d’Ulivi “Basilicata. Lucania: terra dei boschi bruciati. Guida critica.”. Più i romanzi brevi, per esempio, “Farina di sole” (Senzapatria) e “Frutta, verdura e anime bollite” (Besa), con prefazione di Marino Magliani e “Il crepuscolo degli idioti (Besa).
Per le edizioni Il Foglio letterario, i racconti “Sempre dipingo e mi dipingo” e l’antologia poetica “Biamonti. La felicità dei margini. Dalla Lunigiana più grande del mondo”.
Per Arduino Sacco Editore “L’amore ai tempi dell’alta velocità”.
Per LietoColle, “Dieci brevissime apparizioni (brevi prose poetiche)”.
Tra le altre cose, la poesia per Altrimedia Edizioni del libro “Quello che non vedo” (con note critiche di Franco Arminio, Plinio Perilli, Francesco Forlani, Ivan Fedeli, Giuseppe Panella e Massimo Consoli) e il saggio breve “Dalla terra di Pomarico alla Rivoluzione. Vita di Niccola Fiorentino”.
Per Edizioni Efesto, “Chiarimenti della gioia”, libro di poesie con illustrazioni di Pietro Gurrado, note critiche di Gisella Blanco e Davide Pugnana.
Per WritersEditor, la biografia romanzata “Le strade della lingua. Vita e mente di Nunzio Gregorio Corso”.
Per le Edizioni Ensemble, il libro di poesie “L’impianto stellare dei paesi solari”, con prefazione di Gisella Blanco, postfazione di Davide Pugnana e fotografie di Maria Montano.
Per Bertoni Editore, il libro di poesie “Semplificazioni dai transiti sotto la coda di Trieste”.
Per Tarka Edizioni, il saggio narrativo “Ai piedi del mondo. Lunigiana e Basilicata sulle corde degli Appennini”.
Per BookTribu, il romanzo breve “Io devo andare, io devo restare”.