Bernalda 1923
In attesa di sapere cosa i vari mezzi di informazione propineranno quest’anno sui fatti di Bernalda del 31 gennaio 1923 che costarono la vita a tre persone, vediamo cosa se ne disse l’anno scorso dal più autorevole di essi, vale a dire dal telegiornale della Regione Basilicata.
Si disse che:
-i tre caddero nel corso di scontri fra squadre fasciste, nazionalisti e antifascisti,
-a Bernalda erano accorsi fascisti da tutta la Basilicata;
-la sezione nazionalista fu incendiata e in seguito ricostruita;
-Giuseppe Viggiani, una delle vittime, era stato sindaco di era la guida dei nazionalisti locali mentre Pasquale Gallitelli, il secondo ucciso, era il segretario della sezione nazionalista;
-la memoria storica di questi fatti fu “ripristinata” nel 1948. (cfr. https://www.rainews.it/tgr/basilicata/video/2023/01/bernalda-ricorda-i-martiri-del-31-gennaio-fascismo-eccidio-c9fbc0f4-7ef0-4857-a070-0b1821cfff96.html)
Si tratta di affermazioni del tutto inesatte. Proviamo a spiegare perché qui di seguito.
1) Non ci furono “scontri” fra squadre fasciste da una parte e nazionalisti e -fantomatici- antifascisti dall’altra. Ci fu invece un diverbio fra alcuni squadristi e un nazionalista e ciò provocò lo scatenamento di oltre trecento fascisti, molti dei quali armati di moschetto, che si diedero a scorrazzare per il paese dal primo pomeriggio del 31 gennaio fino al mattino del giorno successivo uccidendo tre persone. Uccise, si badi bene, non in piazza, ma a casa loro.
La sezione nazionalista di Bernalda era stata formata nel dicembre 1922 da Nicola Caruso -che durante i fatti non fu toccato- e faceva capo a Franco Navarra Viggiani e ad Aldo Enzo Pignatari, due personaggi in cerca di collocazione nel nuovo assetto di potere. Molti contadini -circa seicento- avevano preso la tessera nazionalista nella speranza che facesse da argine all’arroganza dei proprietari terrieri che avevano formato il fascio dopo la marcia su Roma e pretendevano, fra l’altro, che si togliessero il cappello al loro passaggio.
Il bersaglio grosso degli agrari bernaldesi era tuttavia la riconquista dell’amministrazione comunale e l’emarginazione dalla vita politica di Nicola Viggiani (Viggiano dopo la caduta del fascismo). Era questi uno studente di legge che tornato dal fronte s’era messo a capo degli ex combattenti e nell’autunno del 1920 era stato eletto sindaco a furor di popolo e con la benevola astensione della cosiddetta “borghesia ufficiale” che, spaventata dai moti popolari contro il carovita del 1919, s’era messa alla finestra in attesa degli eventi.
Senonché Viggiani, parlando ai contadini della divisione delle terre incolte e malcoltivate previste dal decreto Visocchi (settembre 1919) e di controllo dei prezzi delle derrate alimentari, s’era mostrato in vario modo irriconoscente e indiscreto nei loro confronti ed era diventato il nemico da eliminare a tutti i costi.
Tanto più quando a suo carico furono fatte emergere irregolarità che lo costrinsero a dimettersi e a passare -sempre con il beneplacito di lorsignori- la guida dell’amministrazione al suo vice Francesco Pizzolla. Ma dopo l’insediamento di Mussolini al governo questo non bastava più: gli agrari volevano il controllo esclusivo degli affari comunali e l’allontanamento dal paese di Viggiani. Anche perché, malgrado tutto, conservava una certa popolarità fra i contadini e si diceva che fosse l’ispiratore della politica seguita dal suo successore.
E non solo: l’intraprendente e spregiudicato ex sindaco era in trattative con il deputato Vito Catalani – a quell’epoca padrone del fascismo regionale- per ottenere la tessera del fascio. Tessera che Catalani gli avrebbe volentieri fatta avere per all’allargare il suo bacino elettorale. Appena saputo ciò che si andava preparando, gli agrari bernaldesi non solo si dissero assolutamente contrari, ma imposero, letteralmente, a Catalani di aiutarli a liberarsi di Viggiani. Altrimenti avrebbero fatto capo al suo ex compagno di lista diventato ormai rivale, cioè a Francesco D’Alessio. Lo stesso che su loro sollecitazione aveva presentato l’interpellanza che aveva provocato un’ispezione sulla disinvolta gestione degli affari municipali gestione da parte di Viggiani costringendolo a dimettersi. E D’Alessio, a quanto se ne sapeva a Bernalda grazie a un personaggio ben informato, era già in buoni rapporti con Mussolini.
La richiesta- «se il suo aiuto ci giungerà, solo allora noi ci ricrederemo e dimenticheremo l’ingiustificato abbandono in cui fu lasciato il fascio di Bernalda»-, fatta il 10 gennaio 1923 dal medico Francesco Gallitelli e inviata a Potenza tramite Bernardo Furlò, fu accolta il 31 gennaio con gli esiti che sappiamo.
Si trattò del più grave caso di violenza politica avvenuta nella regione in quegli anni. Una violenza tardiva e inutile da parte di uno squadrismo dell’ultimissima ora che non aveva dato alcun contributo all’affermazione del fascismo e che tuttavia il fascismo, consapevole della sua debolezza nella regione, coprì.
Probabilmente ciò che accadde non era stato programmato, sicuramente non fu impedito da chi avrebbe potuto farlo. E cioè da Vito Catalani e dal figlio Franco, dal delegato regionale Gerardo Loreto, dal capo dei fascisti pisticcesi e da quello dei potentini. Due personaggi destinati a far parlare ancora dio se, il primo come criminale di guerra in Jugoslavia, il secondo come agente dell’Ovra.
2) A Bernalda non arrivarono squadristi da “tutta” la Basilicata -non ve n’erano neppure-, ma solo da Pisticci, Ferrandina, Craco, Potenza e Taranto e a chiamarle furono i capi del fascismo bernaldese.
3) La sezione nazionalista non fu incendiata, né, tanto meno, ricostruita. Anche perché di lì a qualche mese si ebbe la fusione fra partito fascista e nazionalista. Fu invece incendiato e devastato il negozio del nazionalista Armento e il salone da barbiere del sindaco Pizzolla.
4) Nessuno degli uccisi era iscritto al partito nazionalista. Nessuno. Fra loro l’unico “colpevole” dal punto di vista politico era Giuseppe Viggiani in quanto padre dell’ex sindaco Nicola. Gallitelli fu ucciso invece per motivi privati da due compaesani. La Distasi fu colpita al posto del marito Di Nocco.
5) Nel 1948 ai caduti fu dedicata una piazza denominata “ Martiri del 31 gennaio”. A testimonianza di quanto il fatto bruciasse ancora, il termine martire che, significando testimone, implicava un ruolo attivo, che invece non vi fu. nel provocare i fatti, fu preferito a quello di vittime. La prima commemorazione pubblica dell’eccidio si ebbe nel 1974, lo stesso anno in cui fu apposta una lapide che lo ricordava sulla facciata anteriore del Municipio. Soltanto nel 1993 invece il consiglio revocò la cittadinanza onoraria a Mussolini suscitando per l’occasione le rampogne del Movimento Sociale Italiano che, criticando l’interpretazione che se ne era data, parlò di «manipolazione di fatti, legati a rancori personali e paesani deprecabili, forzatamente nobilitati dalla politica» (cfr. Marco Dipierro,“Cugini di sangue”, tesi di laurea di scussa nell’anno accademico 2009/2010).
Non del tutto a torto se è consentito dirlo. Ciò che però gli eredi del fascismo non consideravano prendendo una simile posizione era che proprio i loro maggiori avevano dato coloritura politica a quegli omicidi. Tanto da amnistiare i due responsabili condannati per uno di essi e tanto da indurre la magistratura dell’Italia postfascista a riaprire il processo a carico di uno di essi nell’anno1948.
Questi appunti si basano sulla ricca documentazione conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma e l’Archivio di Stato di Matera che chi scrive sta studiando per ricostruire cosa accadde veramente a Bernalda centouno anni. Una fatica a cui ho deciso di sottopormi nella convinzione che anche le vittime lucane del fascismo meritino molto più del superficiale trattamento loro riservato da molti studi regionali.
Tanto più oggi che, come denuncia Luciano Canfora, uno dei nostri maggiori storici, il fascismo torna, sia pure in modi e forme diverse da un secolo fa, a farsi vivo.

(Montescaglioso 1949), è laureato in lettere e ha insegnato Italiano e Storia nei corsi di scuola media per adulti a Torino.
Appassionato di storia regionale, si è interessato al brigantaggio, all’emigrazione transoceanica, alla figura di Francesco Saverio Nitti, al fascismo e alle lotte per la terra del secondo dopoguerra. Vari suoi saggi e articoli si possono leggere sulle riviste Bollettino Storico per la Basilicata, Basilicata Regione, Mondo Basilicata e su libri di autori vari (Soveria Mannelli 2008: Villa Nitti a Maratea. Il luogo del pensiero; Torino 2009: Dalla parte degli ultimi. Padre Prosperino in Mozambico; Potenza 2010: Potenza Capoluogo (1806-2006)).
Ha curato inoltre mostre foto-documentarie sull’emigrazione italiana, sugli stranieri in Italia, sulla vita e l’opera di F. S. Nitti, sulle donne al confino e sul confino degli omosessuali nel Materano. Quest’ultima è stata presentata finora in una quarantina di città e ultimamente a Firenze e a Cagliari nelle sedi regionali.
Ampliando la ricerca sul suddetto o tema ha poi pubblicato il libro Adelmo e gli altri. Confinati omosessuali in Lucania (ombrecorte, Verona 2019) andato presto esaurito.
Ha poi svolto un’ampia ricerca sugli stupri commessi nella regione negli anni del grande brigantaggio e sui femminicidi e gli omicidi commessi da donne. L’una e l’altra sono in speranzosa attesa di pubblicazione.