lunedì, 14 Luglio , 2025
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Veleno e tossine della campagna elettorale ancora pericolosamente in circolo

Come era inevitabile per una campagna elettorale particolarmente accesa e con un tasso di politicizzazione non particolarmente alto, tutta giocata sulla personalizzazione di una miriade di candidate/ti e dei rispettivi candidati sindaci, ha spesso deragliato verso toni da tifoserie più da stadio che verso una competizione civile e basata essenzialmente sulle proposte e sulle visioni per la città e -la dove ci fosse stata- anche politica. Ciò ha portato a situazioni per nulla civili e gradevoli che si sono perpetuate nelle settimane scorse e che -purtroppo- continuano ad avvelenare il clima di una città che ora si trova di fronte ad una prova difficile per la definizione di un possibile suo governo avendo scelto di collocare la testa (il Sindaco) da una parte e il corpo (la maggioranza consiliare) dall’altra. Una situazione che richiederebbe serenità e abbassamento dei toni nell’interesse di questa città che tutti hanno detto di volere come bene primario. Ovviamente -al di là delle buona volontà dei più- non è che sia sempre possibile evitare la proliferazione di singoli cretini e/o provocatori che si sentono liberi di compiere gesti o atti assolutamente censurabili. E proprio in queste ultime ore sono stati, infatti, stigmatizzati -da parte dei sostenitori di Roberto Cifarelli- un paio di episodi non certo edificanti. Uno riguarda una scritta offensiva nei confronti proprio del consigliere regionale apposta sopra un manifesto affisso su un muro della città. Un gesto assolutamente incivile e gratuitamente irriguardoso.

L’altro, invece, si è consumato sui social ai danni di un supporter particolarmente attivo sempre di Cifarelli, ovvero Antonio Esposito che è stato oggetto di scherno e derisione a partire dalla diffusione in rete di una vignetta, poi rilanciata e ripresa persino da una sua ex docente, con parole e toni del tutto assurdi e surreali -considerata la provenienza- oltre che gravemente offensivi. Segno che avere una laurea in tasca non garantisce certo una pari elevata maturità civile. E segno di come si sia caduti in basso e della necessità -pertanto- di elevare il dibattito, evitando per quanto possibile di farsi trascinare troppo in basso da parte di chi sa -evidentemente- frequentare solo quel livello infimo. In merito a questa seconda vicenda riportiamo a seguire una specifica nota che lo stesso Esposito ha ritenuto dover dedicare alla sua ex docente e che ha pubblicato sui suo profilo facebook.  Ma prima di pubblicare il suo intervento, ad Antonio Esposito e a quanti volessero farne tesoro (come abbiamo fatto noi all’epoca) per il futuro, ci permettiamo di  trasferire un piccolo ma utile suggerimento che ricevemmo (per davvero non è una invenzione) a nostra volta da giovane, dal saggio papà di un nostro caro amico. “Un giorno -cominciò a raccontarci- mentre stavo passeggiando, calpestai una cacca. Quindi, cominciai a strisciare la suola della scarpa per terra nel tentativo di pulirla, e nel contempo iniziai ad imprecare furiosamente per un bel po contro quell’escremento. Ma stavo sbagliando. Avrei dovuto semplicemente strisciare il piede e passare oltre. Perchè, non ho fatto altro che dare importanza alla merda!” Ecco è proprio questo l’errore che bisogna evitare di compiere.

QUANDO UN’INSEGNANTE DIMENTICA DI ESSERE MAESTRA DI VITA E DIVENTA IL PRIMO BULLO DA ISOLARE: lettera aperta di un ex alunno (oggi docente) al mondo della scuola
“Ci sono ferite che non sanguinano ma marcano l’anima, che non si vedono ma si portano dentro per anni, in silenzio. E poi ci sono parole subite – dette da chi avrebbe dovuto proteggerci, ispirarci, condurci per mano – che non si cancellano nemmeno con tre lauree e la lode, un dottorato e una vita piena di successi (di cui vado orgoglioso, checcè ne dica la mia carnefice). E quelle parole restano lì non come cicatrici di debolezza, ma come medaglie al valore, perché essere sopravvissuti a certi “educatori” è già di per sé un’impresa.
Durante questa campagna elettorale (solo perché ho fatto parte di un gruppo di ragazzi che ha osato cambiare le regole invece di subirle e ha provato a sfidare l’ordine precostituito, rifiutandosi di inchinarsi ai soliti giochi di potere che qualcuno, da anni, considera un diritto acquisito) ho ricevuto attacchi di ogni tipo (e non ero nemmeno candidato, figuratevi se lo fossi stato!). Ma tra i colpi più vili e inaspettati, ci sono stati quelli di una donna che si fa chiamare “professoressa”, e che 15 anni fa – seppur per breve tempo, fortunatamente – fu la mia insegnante ai tempi delle medie. Già allora, tra sarcasmi velenosi e derisioni più o meno velate ma perpetrate con sistematica, scientifica crudeltà, mi fece conoscere un volto della scuola che nessun ragazzo dovrebbe mai sperimentare: quello del disprezzo mascherato da autorità, quello della crudeltà camuffata da autorevolezza, quello della frustrazione travestita da giudizio e del silenzio usato come arma contro chi non rientrava tra i “prediletti” (ovvero i figli delle famiglie influenti). Con noi altri (i fragili, gli invisibili, i “nessuno”) mostrava il volto peggiore, quello dell’umiliazione.
A tredici anni, pensi che il problema sia tuo, che se ti ignorano, se ti colpiscono, se ti deridono, forse non vali. Ci metti anni a capire che non eri tu il problema, che il male non veniva da un’insufficienza, ma da chi non ha mai saputo insegnare davvero. Oggi non provo rabbia per lei, anzi la compatisco. Perché mentre io ho trasformato il suo fango in cemento per costruirmi, lei è rimasta impantanata nella sua stessa melma. La cara prof, ha avuto il privilegio di toccare centinaia di vite e ne ha scelte alcune da schiacciare. Ma ha fallito con la mia, che è davanti ai suoi occhi, forse anche pieni di invidia.
Eppure non contenta, quella professoressa – che come ieri ha un nome e un volto ma in più, oggi, ha anche una tastiera – ha recentemente ha deciso, di nuovo, di insultarmi pubblicamente definebdomi “ritardato”, “cangolino che scodinzola nel fango”, e usando altri epiteti che non voglio nemmeno ripetere, degni della una squallida bettola in cui abita il suo animo. Lo fa, magari, accanto al marito candidato consigliere in una lista della coalizione di destra, che avrebbe potuto, quanto meno, richiamarla a un comportamento più corretto. Ma a dirla tutta non sono i termini da lei usati a ferire (sono solo il sintomo di un’anima in guerra con se stessa). Ciò che fa davvero male è la consapevolezza che in Italia ci siano ancora adulti, insegnanti, educatori, capaci di seminare cosi tanto odio…e pretendere pure di essere chiamati “professori”. Persone come questa donna hanno un potere enorme: accendere menti o provare a spegnerle per sempre. Bene, sappiate che c’è chi sceglie la seconda opzione. E sappiate che vostro figlio o vostra figlia potrebbe trovarsi in mano a questa gente qui.
Quello che sto facendo non è altro che raccontare una storia vera, la mia (ma vorrei che vada oltre la mia persona perché io non ho bisogno di difendermi, la mia vita parla per me), e non lo faccio per vendetta (io non mi vendico mai, piuttosto perdono sempre) ma per sensibilizzare, per innestare una riflessione collettiva e, soprattutto, per dare sostegno e vicinanza a tutti quei ragazzi che non trovano il coraggio di parlare.
Pertanto mi domando e vi domando: cosa siamo diventati, come società, se chi dovrebbe educare si trasforma in carnefice?Se chi dovrebbe essere una “finestra aperta”, una mano tesa, una guida silenziosa ma presente, rischia di portarti alle soglie di un precipizio e magari darti anche la spinta letale? Io credo che un docente debba seminare sogni, non infliggere paure, debba costruire certezze, non insicurezze.
Chi ha il privilegio e la responsabilità di entrare ogni giorno in una classe, dovrebbe ricordarsi che ogni parola ha un peso, ogni gesto può diventare macigno o trampolino. La scuola dovrebbe essere il luogo dove i ragazzi si scoprono, si costruiscono, si sentono visti, accettati e valorizzati, non un posto in cui imparano l’umiliazione. E alla prof che oggi si arroga il diritto di insultare in pubblico le persone che hanno saputo coltivare ciò che lei non ha mai saputo fare, ovvero l’amore, vorrei solo dire una cosa: io ho vinto. Non contro di te…ma nonostante te.
Ho vinto quando, dopo essere stato messo da parte, ho imparato a stare al centro senza calpestare nessuno. Ho vinto quando ho scelto la via della cultura, della gentilezza, della responsabilità. Ho vinto ogni volta che, in classe, ho riconosciuto nei miei compagni (prima) e nei miei studenti (poi) quella fragilità che lei derideva, e che io invece proteggo. Perché è lì, nelle vulnerabilità, che nasce la vera forza.
Eh sì…se lo avete intuito, avete capito bene: ironia della sorte, sono anch’io un professore, e la signora è addirittura costretta a chiamarmi “collega” (il tempo passa ma la dignità resta e, a volte, si prende la sua rivincita in silenzio). Io docente lo sono diventato con le mie fatiche, le mie cicatrici, le mie insicurezze, ma anche con una certezza: mai, nemmeno per un istante, farò provare a un mio alunno ciò che ho provato io a tredici anni. Mai, nemmeno per un istante, permetterò che un ragazzo si senta piccolo nella mia aula. Mai!!!!
A tutti gli insegnanti d’Italia che ancora credono nella scuola come faro, rifugio, ascensore sociale e provano a fare la differenza. Ai miei colleghi che, nonostante tutto, indossano ancora gli umili panni del docente ogni mattina per sollevare destini anziché spezzarli: continuate, vi prego. A chi invece, come questa signora, ha scelto di indossare il titolo ma non il ruolo: scendete dalla cattedra e tornate tra i banchi, a studiare e a imparare cosa significa davvero vivere in una società civile.
Buona vita collega, non è mai troppo tardi per imparare ad amare. Io, addirittura, la ringrazio pure. Perché la sua crudeltà mi ha insegnato più di tutti i suoi compiti a casa e mi ha permesso di capire fino in fondo “come non essere”. E per questo, “involontariamente”, è stata la mia insegnante più efficace.
Firmato:
Un ex alunno, oggi Professore. Domani, forse, insegnante di suo nipote che amerò come fosse il mio. Perché io ho un cuore pieno di vita, e nessun rancore.
P.s.
Mi auguro che qualcuno – un preside, un ministro, un collega – legga questa storia, e che la scuola italiana si fermi, un istante, e si interroghi, assumendosi anche qualche responsabile. Come vedete, il bullismo non ha solo il volto di uno studente prepotente. A volte siede una cattedra, parla con la voce melliflua, finge un sorriso di circostanza, ha un penna rossa e un registro in mano ma l’anima tossica e il veleno nel cuore.
Io credo sia inaccettabile anche solo pensare che un’insegnante – oggi, nel 2025 – possa essere veicolo di odio e di violenza verbale. Ed è inaccettabile che chi ha traumatizzato i propri studenti possa continuare ad autodefinirsi “educatrice”. Finché tollereremo figure così nella scuola, avremo aule piene di silenzi, non di sogni. Piene di voti, non di visioni. Piene di paura, non di possibilità.
P.p.s.
Gli screen pubblicati (ho avuto addirittura il garbo di censurare il nome, per quanto non fossi obbligato a farlo, dato che sono commenti PUBBLICI su pagine PUBBLICHE) contengono solo una minima parte di tutti gli insulti che ho dovuto subire in queste due settimane da questa donna.

 

Vito Bubbico
Vito Bubbico
Iscritto all'albo dei giornalisti della Basilicata.
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