Da bambine, a scuola, ci hanno insegnato che la lingua italiana distingue due generi grammaticali: il maschile e il femminile. Solo più tardi, con il passare degli anni, abbiamo imparato -a nostre spese -che esiste, mimetizzato in questa varia umanità, un altro tipo di “genere”, assolutamente bacato.
Un genere d’uomo che abusa, ammazza, umilia pur di sentirsi maschio supremo. Azioni sprezzanti diventate sempre più ricorrenti tanto da far nascere la necessità linguistica di coniare una nuova parola (a partire dal 2001): Femminicidio.
FEMMINICIDIO non è una invenzione mediatica, né una parola qualsiasi.
FEMMINICIDIO vuol dire che di genere si muore.
E nel terzo millennio la violenza di genere uccide, solo in Italia, una donna ogni tre giorni. Quest’anno sono già più di 150 le donne vittime della furia omicida degli uomini. Mai come in questo caso, i dati diffusi nei giorni scorsi raccontano meglio delle parole questa realtà sconvolgente in triste escalation.
Nel 2013 si sono registrati il 12% di casi in più rispetto al 2012. E il dato sconvolgente è che nel 70% dei casi l’omicidio avviene in famiglia e nel 92% dei casi le donne uccise sono vittime di un uomo che hanno amato o che comunque ha fatto parte della propria sfera affettiva. In totale, lo scorso anno di femminicidio sono state 179 le vittime: una ogni 48 ore. Dati raccapriccianti ed inauditi per una società che vuole definirsi, civile, avanzata e democratica.
Nel 1999 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite designò il 25 novembre quale “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, invitando tutti i governi, le organizzazioni internazionali e le organizzazioni non governative, ad organizzare eventi ed attività per sensibilizzare l’opinione pubblica in tal senso. Non saranno mai troppe le manifestazioni su questo tema. Non saranno mai abbastanza le voci di associazioni, di scuole, le iniziative che si svolgeranno nella giornata di oggi che chiedono Rispetto nei confronti delle donne.
Rispetto che dovrebbe partire, sin dai primi anni di scuola, dall’uso di un linguaggio non violento o discriminante. Rispetto in cui emerga chiara la necessità di recuperare i valori della vita, rieducare la persona, maschio e femmina, al senso di responsabilità verso se stessi, il partner e la propria famiglia. Rispetto, atto ad aiutare a sviluppare e migliorare la propria autostima, a vivere in armonia e ad amarsi nella giusta misura, imparando ad essere compagni e amanti. Due esseri unici, diversi ma complementari. Rispetto, che deve essere insito nel momento in cui si insegna, tra i banchi di scuola, il genere maschile e quello femminile.
Rispetto che deve esserci sempre, anche quando ci si trova a gestire l’abbandono, la separazione, che è il momento in cui in genere scatta il raptus omicida. Rispetto che può emergere solo concependo la donna come essere umano e non come un oggetto di proprietà.
“Io sono mia” recitava uno storico slogan femminista. Ecco, questo concetto andrebbe radicato di più nella mente degli uomini. Ma a quanto sembra di strada ce n’è ancora molta da fare. E chissà quante sventurate dovranno ancora pagare con la propria vita.
E allora parliamone. Parliamone di più. E non solo nella giornata di oggi. Ma ogni giorno, ogni momento. Con i padri, i mariti, i compagni, i figli. Fino a quando lo capiranno in molti, in tanti, sempre di più.
Giornalista freelance . Tra le collaborazioni, Il Quotidiano della Basilicata, Avvenire, Il Fenotipo (periodico dell’Avis Basilicata), Fermenti (periodico Diocesi di Tricarico), Infooggi.