Julian Assange -detenuto da anni senza alcuna condanna nelle carceri britanniche- potrà ricorrere contro l’estradizione negli Stati Uniti, dove il cofondatore di Wikileaks rischia 175 anni di carcere con l’accusa di spionaggio per aver pubblicato -facendo il suo lavoro di giornalista- migliaia di documenti riservati. Per la moglie Stella Morris: “I giudici hanno preso la decisione giusta. È il momento di chiudere il caso e abbandonare questo vergognoso attacco ai giornalisti, alla stampa e al pubblico che va avanti da 14 anni“. Si riapre dunque la partita per la libertà di questo giornalista perseguitato per aver svelato al pubblico mondiale crimini di guerra commessi in Afghanistan e Iraq che gli USA avrebbero voluto tenere nascosti anche ai propri cittadini. Cose che capitano nel cosidetto libero occidente che ne vanta tanta da volerla esportare a forza di guerre. Ad offrire questa chance ad Assange è stato il collegio di seconda istanza dell’Alta Corte di Londra con la propria sentenza di oggi -giunta dopo un primo spiraglio aperto a marzo, quando gli stessi magistrati avevano accettato di ridiscutere l’istanza difensiva rigettata in primo grado – ammettendo la possibilità di concedere un ulteriore appello laddove i rappresentati del governo americano non avessero fornito rassicurazioni “soddisfacenti” sul pieno rispetto del diritto del giornalista australiano ad “un giusto processo“. Cosa che evidentemente non è accaduto. Assange (che versa in una condizione di salute psico-fisica sempre più precaria) ha ricevuto la buona notizia in cella, in quel soffocante carcere di massima sicurezza di Belmarsh dove è rinchiuso da oltre cinque anni e da dove non è potuto uscire nemmeno per l’udienza odierna. Ora i suoi legali avranno alcuni mesi per preparare il nuovo procedimento, ma lui è destinato a rimanere in quel carcere (affollato di assassini, terroristi, criminali conclamati della peggiore risma) pur essendo senza alcuna condanna. Le argomentazioni alla base della richiesta di questo ulteriore appello riguardavano due questioni cruciali non garantite in USA per un processo secondo gli standard minimi europei: il rischio di una condanna a morte (prevista per il reato contestato ad Assange negli Usa di violazione dell’Espionage Act del 1917, inedito per un giornalista); e il non poter invocare, in quanto cittadino australiano, il Primo Emendamento della Costituzione, baluardo della libertà d’espressione e informazione. Le decisioni dei giudici, dunque, allontanano lo spettro dell’estradizione e fanno crescere l’auspicio di una vittoria giudiziaria conclusiva, o anche quella di una soluzione politica… se solo Biden vorrà.
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