Prima che fosse troppo tardi, sono tornato sopra u’ calchèr, il lastrone di pietra di calce che fronteggia il rione Piccianello e gli faceva da margine spianato lungo il fronte della Murgia che per salti successivi scende verso la ferrovia e degrada fino al fondo della Gravina; incontra il Pantano – luogo dei nostri bagni estivi e di scoperta dei nostri corpi bambini; più grandicelli, ci spingevamo fino allo Jurio per esibire le nostre presunte capacità natatorie.
Non ce l’avrei mai fatta prima! Dove c’erano le grandi aie per la trebbiatura – che si vollero preservare imponendo l’improbabile vincolo di ‘foro boario’ per vacche e pastorizia ormai quasi del tutto scomparse – fu delocalizzato dopo il terremoto dell’Ottanta il mulino e pastificio Padula poi Barilla. Che ne era rimasto di quelle aie calpestate da muli e cavalli torno torno, dei canti a rampogna contro paternali e mezzani, del vino e delle sch’tedd che scandivano pause al lavoro e interminabili racconti di paure e speranze e del sacro che faceva dialogare i vivi con i morti; delle cave di calce; delle grotte carsiche che lì si svelavano a noi bambini attraverso tagli appena percettibili sul pianoro biancastro venato di rosso ferroso? In quelle fenditure c’eravamo calati tante volte; in più d’una avevamo intravisto addirittura architettura scavata, sedili lungo le basse pareti ed emergenze al centro scalpellate a mo’ di enorme tavolo: soltanto fantastiche ricostruzioni di bambini; magari, confusione di luoghi con la poco discosta grotta di Chitaridd’ che ci sovrasta ancora dalla tolda di quella strana nave di calcare al centro della gravina e carica di storie e ammonizioni e ombre di storia locale?
Non ho ritrovato più niente; se non una sensazione di vuoto, che mi afferra ancora rimemorando. Una sensazione di mancanza mi impedisce di andare a fare altre verifiche: che ne è oggi dello Jurio; come hanno ridotto il Pantano, al di là del fuggitivo e riluttante sguardo attraverso il ponte che lo sovrasta? E lo sperone – il ‘trono’ dei nostri ‘generali’ bambini – che verso il nuovo carcere chiudeva il pianoro delle aie?
La stessa sensazione di vuoto – quasi nausea, a farci caso – che provo, che si prova tutti! – dinanzi alle rovine e al senso delle rovine affioranti dal nostro passato meridionale: terremoti, frane, incursioni distruttrici, alluvioni … L’emigrazione poi è un altro nome dell’abbandono anche per noi materani e della fuga; e l’immigrazione degli anni Sessanta e che dura tuttora dai paesi dell’intorno – che anche per questo si spopolano – e rigonfia artificiosamente l’urbano e ne snatura la comunità.
Il passaggio dagli anni novanta e quello di fine millennio è coinciso con fasi veramente cruciali a differenti scale, negli accadimenti locali come in quelli mondiali: lo spopolamento progressivo dei paesi interni – se non la loro chiusura, il crollo del sogno dell’industrializzazione, la devastazione del territorio, l’affermarsi di nuove forme di malavita e clientele, la fine del comunismo, il fenomeno sempre più diffuso dei localismi, la nascita degli integralismi, le guerre per ‘esportare la democrazia nel mondo’. Insomma, in un brevissimo lasso di tempo – quasi segni di una possibile fine dei tempi, della cancellazione di tutta la storia della nostra tradizione, c’è stata la devastazione del centro del mondo attuale e di quello che era stato il centro della nostra civiltà.
Forse, l’unico modo per essere presenti nel luogo-mondo, per tutelarlo, per salvarlo, è sperimentare uno sguardo diverso sul pezzo a noi più vicino, cominciare qui ed ora a riconoscere i luoghi. Un viaggio magari minimo, fatto sul lastricato di calce della propria infanzia o nel paese dei nonni (che le tradizioni e i suoi significanti conoscevano appieno); magari, viaggiando in questa nostra antica e problematica cittadina che ci appare senza futuro …: un viaggio che è una sorta di terapia della malinconia, della noia, della stanzialità, ma anche del desiderio di rivelarsi a sè stessi.
Nessuno più dei nostri emigranti, contadini poveri e braccianti defraudati del fazzoletto di terra che pure avevano guadagnato con le lotte contadine del dopoguerra, ha conosciuto l’esperienza di smarrimento, di perdita dell’ombra. Le fughe sperimentate nei secoli dalle popolazioni meridionali e più di recente l’emigrazione, sono esperienze di spaesamento-appaesamento, alla fine delle quali l’ombra è stata smarrita, il senso di appartenenza e l’identità sono profondamente mutate.
Ma il sentimento delle rovine è tutto moderno. Le rovine sono il segno di qualcosa che è stato e non è più, con un passato che va interpretato e con cui bisogna fare i conti. Una percezione tutta occidentale interna alla concezione del tempo in senso lineare e irreversibile, non più quello ciclico dell’eterno ritorno naturale, che si origina già nel mondo antico e si afferma definitivamente in epoca moderna.
Eppure, le storie dell’abbandono sono oggi gli ultimi grandi miti di un mondo che cambia velocemente e che, forse, si sta davvero perdendo per sempre. Ma anche del sacro e questo mi pare ancor più grave: processioni, feste, carnevali, cure dei defunti, i riti del lavoro, non rappresentano forse, anzitutto la necessità del dialogo e della relazione ‘in presenza’ tra vivi e morti, per la salvezza individuale e della comunità? Abbiamo buttato – con le esasperazioni della modernità – il bambino e l’acqua sporca; basta guardarsi dentro e attorno a noi: anomia, rabbia che esplode nel vivere vuoto e senza senso, senza un’idea del sacro appunto.
Stiamo perdendo l’abitudine ai luoghi. Forse l’abbiamo già persa. È davvero paradossale che ciò avvenga mentre tutti in maniera diversa più volte al giorno ripetiamo il termine locale. Più invochiamo i luoghi e più siamo lontani da essi, non abbiamo più con essi familiarità. Pure diversi, tendono ad apparire sempre più uguali – tutt’al più paragonabili a Disneyland, sono sempre più anonimi, estranei, privi della loro sacralità. Ai nostri giorni, nel periodo della mondializzazione, della globalizzazione rischiano di scomparire, di dissolversi come centri e come punto di riferimento, come reticoli di relazioni e di storie. Si potrebbe pensare che, alla «fine» dei luoghi storici, concreti, relazionali, corrisponda la fine del «sentimento del luogo», sia delle società tradizionali che di quelle moderne.
Guardiamo i tanti paesi nostri abbandonati – va ormai segnalato anche l’esaurirsi della nostra rendita demografica dell’immigrazione materana – e il costante sforzo delle persone di sottrarli all’oblio e alla morte. I luoghi incompiuti, non finiti, informi, tutti uguali lungo le coste joniche, vengono segnati da nuove vie dei canti, da processioni a mare, da riti di rifondazione. Proprio i paesi abbandonati, paesi a rischio abbandono, centri senz’anima e senza piazze, senza posti di ritrovo, desolati, a volte mortificati, devastati, oggetto d’incuria e di speculazioni, proprio questi non-luoghi aspirano a diventare luoghi, ad essere riconosciuti come luoghi, ad affermarsi come nuovi luoghi.
I luoghi delle rovine e del cemento arrogante dove l’idea stessa di luogo tende ad essere cancellata, i luoghi abbandonati, di transito e di passaggio, luoghi dell’esodo e del ritorno: proprio in questi luoghi, con ogni probabilità, l’uomo (non l’uomo in generale, ma quell’uomo) avverte la sensazione di perdersi, si ritrova senza punti di riferimento. Il luogo è, certo, quello in cui siamo nati, ma anche quelli in cui siamo vissuti, quelli che abbiamo sfiorato. Il luogo è il nostro corpo, la nostra vita, i nostri incontri, i nostri legami. Il luogo muta e bisogna cercare sempre un centro; la nostra casa, il vicinato, il paese e via via cerchie sempre più grandi. L’impossibilità, la difficoltà a ritrovarlo, a ricrearlo, porta all’anomia, alla follia.
Quanti sono i luoghi della nostra infanzia che abbiamo perduto e vorremmo ritrovare: e sempre con un senso di attesa e di fiducia; come accadeva ai pellegrini, alle persone in fuga, agli emigranti delle nostre terre? E ritornandoci, forse non avvertiamo strane “presenze” aggirarsi tra quelle macerie, quei ‘vuoti’; quasi una sorta di svelamento di storie e di racconti di vita appena passate, mentre intorno c’era – c’è – l’aria di un mondo nuovo che non ha contorni precisi e che a volte si dissolve prima di nascere, che resta spesso incompiuto – come l’intero territorio ‘sfregiato’; per sempre? Piccole ‘rovine’, certo non quelle ‘monumentali’ inserite nella storia della civiltà e dell’arte; ma più sotterranea, sconosciuta e ignorata, fatta di una storia invisibile, cancellata, considerata irrilevante, soprattutto in un contesto dove anche i resti artistici più importanti dell’antichità classica e degli altri periodi vengono spesso deturpati e devastati, abbandonati (ne parliamo della ‘balena Giuliana’?).
Era davvero paradossale – lo è a maggior ragione oggi – che discipline che hanno studiato soprattutto, a volte in chiave nostalgica, culture e civiltà estinte o in via di estinzione, o nel tentativo ‘moderno’ di assecondare l’industrialismo fornendo un alloggio agli operai, non considerassero – non lo fanno tuttora – degni di attenzione i luoghi, i miti, il sacro, le leggende dell’abbandono contemporaneo. In sintesi: tratti di una storia passata, controversa, ma anche materiali e simboli con un loro senso, una loro ragione, una loro vitalità nel presente.
Ancora più dolorosa e inevitabile della domanda: che ci faccio qui, è la domanda: cosa posso fare qui, per questi luoghi? Una domanda che condividiamo con persone che hanno un senso dei loro luoghi, che rivelano desiderio di restare o desiderio di fuggire, voglia di tornare o necessità di cambiare; persone spesso combattute divise inquiete e lacerate, che non possono fare a meno del luogo, di quello di una volta e di quello di oggi; persone con sentimenti contrastanti, sullo sfondo e intorno famiglie, comunità mondi separati.
Allora ti rendi conto che capire significa anche avere idee, progetti; quelle persone che t’interrogano te le porti dentro, con un senso di rimorso, con nostalgia, con un sentimento di inadeguatezza.
Non certo però di Idee e progetti – come quelli presentati per la ‘valorizzazione dell’ex area Barilla’ in questi giorni circolanti negli studi tecnici materani e che ancora una volta sommano soltanto sacchette di cemento a cemento come banconote a banconote, assecondando rendite e speculazioni. Idee e progetti vecchi, attardati in visioni passatiste; che non colgono il pericolo esistenziale che ci precipita addosso negando il valore costituente dei luoghi per tutti; specie per i più giovani, cui strappiamo anche la possibilità del ricordo, oltre che quella di restarci nei nostri luoghi. Che non riescono neppure a immaginare forme di ricucitura dei luoghi contermini, progettando invece due negatività: quella del definitivo abbandono di un’area degradata (non a caso popolarmente chiamata la Kasba) e quella della superfetazione abitativa in un’area urbana assai delicata, che da questa rigenerazione si attendeva il ripristino della sua vocazione a skyline della nostra cittadina.
E della responsabilità politica, morale delle nostre istituzioni ne vogliamo parlare? Vogliamo parlare della loro incapacità (voluta, perseguita, provocata ad arte dagli interessi della rendita e della speculazione) nel difendere quel luogo e il suo destino?
