venerdì, 13 Giugno , 2025
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Se Dio esiste dovrà sventolare,per i tanti Capitano ”Seydou”, la bandiera della giustizia !

Niente pietismi, ipocrisie, ma un invito a rimboccarsi le maniche, senza preoccuparsi di sporcarsi le mani, quando un migrante raggiunge le nostre coste, dopo sofferenze, torture, sfruttamenti e con la morte accanto, che fino all’ultimo appare come una Liberazione. La storia, cruda, tra speranza e riflessioni, di Seydou e Moussa, i giovani protagonisti africani del film ” Io capitano” di Matteo Garrone, premio per la miglior regia al festival del cinema di Venezia, è di quelle che non lascia spazio a compromessi e che dovrebbero vedere in tanti. A cominciare da quanti finora, e non importa quale sia il colore politico di governo, hanno gestito in maniera approssimativa il fenomeno migratorio senza riuscire a contenerlo ( con tante risorse finanziarie e logistiche dilapidate in Tunisia e in Libia), a gestirlo a Lampedusa e negli altri luoghi del BelPaese, con tante contraddizioni e delusioni per chi arriva. E quanto all’inclusione, in una nazione con un forte calo demografico e con tanti vuoti nel settore produttivo, siamo al paradosso che non si va oltre- nella gran parte dei casi- ai bisogni del quotidiano. E’ la storia di un viaggio nell’inferno dei migranti, che Francesco Calculli, percorre idealmente a nuoto ( è stato un atleta di quella disciplina) con i giovani protagonisti di ”Io capitano”. Imprecando, denunciando, su una vicenda conosciuta da vittime,sfruttatori e dall’Unione Europea, ma lasciando che la Provvidenza, la buona sorte o il caso faccia il suo corso, fino ad avvistare le luci di una piattaforma petrolifera, simbolo di sfruttamento delle risorse nel Sud del Mondo dove i giovani fuggono verso il miraggio di un benessere fittizio. E qui l’analisi marxista dei fatti produttivi ci sta tutta, secondo la quale gli uomini non nascono uguali ma sono espressione dei rapporti di produzione ». Un concetto chiaro ma che nelle democrazie europee viene ignorato, sottovalutato. E con i migranti che alla fine- nel gioco delle complicità tra primi ministri, dittatori, mediatori e sfruttatori-diventano un “carico residuale” di cui sbarazzarsi il prima possibile o facendo a scaricabarile, come sta accadendo nell’Unione europea. Non resta che auspicare, come ripete Francesco Calculli, forte della carica ideologica delle testimonianze del museo della Resistenza e del Comunismo, che la : « Cara bandiera rossa, ridiventi straccio, e che il più povero la sventoli ”. La riscossa della rabbia, della Resistenza…Dall’Africa, sulla prua di un barcone e con l’urlo di ”Io capitano” per i tanti Seydou che continueranno ad arrivare in Italia.

IO CAPITANO: IL FILM DI MATTEO GARRONE CHE RACCONTA
LA STORIA DI UN VIAGGIO NELL’ INFERNO DEI MIGRANTI.
di Francesco Calculli. Era una mattina caldissima di luglio, nell’ufficio postale di via Passarelli non c’era il solito affollamento, e sembrava quasi piacevole godermi un pò di refrigerio dalla insopportabile calura, e mentre me ne stavo seduto ad aspettare il mio turno allo sportello di competenza non ho potuto fare a meno di ascoltare un signore che al telefono si lamentava con un suo parente che Metaponto sarebbe invasa dagli africani :« Spesso questi te li trovi davanti strafottenti, la loro situazione è fortemente precaria, la sera si ubriacano, e basta uno sguardo che si creano risse violente in particolare fra il gruppo dei senegalesi e quello dei nigeriani ». E ancora: « Quando arrivano sui barconi li vedi esultare di gioia perché già sanno che solo in Italia accogliamo tutti. Questi extracomunitari del cazzo vengono tutti qui ». Anche il film “Io Capitano” di Matteo Garrone vincitore del Leone d’argento per la migliore regia alla recente Mostra del cinema di Venezia ora nelle sale, e che tutti dovrebbero guardare a cominciare proprio da quel signore all’ufficio postale, si conclude con le grida di gioia dei migranti nel momento in cui hanno finalmente raggiunto l’agognata “terra dell’abbastanza”, in particolare la Sicilia, ignari che anche quella è terra di emigranti e di povertà, e dove saranno probabilmente reclusi in centri di detenzione simili per le terribili condizioni in cui si vive ai lager atroci che hanno già conosciuto in Libia, ma che per lavarsi la cattiva coscienza i nostri governanti preferiscono denominare con ipocrisia, fingendo di essere civili, Centri di Primo Soccorso e Accoglienza. E’ una scena finale del film difficile da dimenticare, perché quelle grida di gioia raccontano dei sommersi e dei salvati, di quella umanità disperata che soffocata nei barconi è “miracolosamente” sopravvissuta a un viaggio infernale di sola andata. Perché se anche fosse vero che dopo la morte le anime dei peccatori discendono immediatamente nell’inferno, sicuramente subiscono le pene dell’inferno i dannati della Terra che decidono di affrontare il viaggio dell’orrore attraverso l’Africa per inseguire il sogno dell’Occidente.

Il film “Io capitano” racconta quel viaggio attraverso la storia di due adolescenti senegalesi, Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall), e lo fa senza la retorica e il paternalismo dell’uomo bianco che guarda attraverso le lenti del pietismo le vicende di due migranti. Invece Garrone punta la macchina da presa sui due protagonisti e affida totalmente al loro sguardo il racconto. E per restare fedele all’intento, i due giovani attori (bravissimi) parlano wolof, la lingua più diffusa in Senegal, per tutto il tempo. Seydou e Moussa sono cugini inseparabili, e ogni giorno hanno messo da parte un piccolo tesoretto che hanno deciso di usare per pagare il loro viaggio dei sogni in uno dei grandi Paesi europei, nella convinzione illusoria che nel “giardino dell’Eden europeo” potranno diventare dei musicisti famosi: « Fidati, quando arriveremo in Europa diventeremo delle star della musica e saranno i bianchi a chiederci l’autografo » dice Moussa a Seydou che continua a rimandare il viaggio perchè non vuole lasciare la madre da sola. Fa riflettere che proprio la mamma di Seydou è fortemente contraria, e che un vecchio del villaggio che era già stato un migrante ammonisca i due ragazzini dicendo loro: « Sapete che in Europa la ricchezza nasce dall’ingiustizia, che molte persone vengono sfruttate nel lavoro e tante altre dormono per strada?». Ma Seydou e Moussa non si fanno impressionare, nella loro visione utopica l’Europa può essere solo quella parte del mondo dove tutti sono ricchi e felici. La loro ingenuità mi ricorda quella degli emigrati italiani dei primi del 900′ che quando si imbarcavano sul piroscafo diretto negli Stati Uniti d’America portavano in tasca delle fotografie artefatte di pulcini giganti alti 2 metri e di alberi su cui rami crescevano delle monete d’oro, che gli erano state date da intermediari senza scrupoli, che lucravano su quei viaggi della disperazione per convincere i poveri straccioni analfabeti che l’America era davvero la terra della grande abbondanza. Seydou e Moussa decidono dunque di partire di nascosto ma il loro viaggio della speranza si trasforma molto in fretta in un inferno in terra fatto di violenza, tratti di deserto da attraversare a piedi , torture e morte. Già appena arrivati a Dakar, i falsi passaporti del Mali che i due ragazzi hanno pagato a un prezzo elevatissimo, non servono a ingannare i corrotti poliziotti di frontiera senegalesi, e per non finire in prigione devono pagare entrambi cento euro. L’ attraversamento del deserto per raggiungere il confine libico viene fatto da Seydou e Moussa insieme con altri migranti tutti ammassati su un pik up che percorre dune ripidissime a velocità elevatissima, e per non cadere dal veicolo è necessario rimanere aggrappati con tutte le forze, chi non resiste rotola giù sulla sabbia e l’autista non si ferma a riprenderlo. All’improvviso il pick up si ferma e l’autista fa scendere tutti a colpi di bastonate, abbandonando i due ragazzi e il gruppo di migranti in cui ci sono anche donne con bambini in mezzo al deserto con poche bottigliette d’acqua che non bastano per tutti, e lasciando un individuo che deve fare da guida fino all’arrivo in Libia. Attraversare il deserto a piedi diventa un calvario indicibile. Una signora non è più in grado di proseguire ed è costretta a fermarsi. Seydou cerca di aiutarla in tutti i modi : « Madame forza si alzi, non ci è consentito fermarsi per riposare, madame deve alzarsi». Ma Moussa che poco distante ha assistito alla scena, gli urla :« Seydou che stai facendo, affrettati, la guida si sta allontanando troppo, se non la raggiungiamo subito moriremo nel deserto» . Seydou, profondamente dispiaciuto e con le lacrime agli occhi volta le spalle a quella donna di mezza età che gli ricordava sua madre, raggiunge Moussa e insieme continuano la loro odissea migratoria.
La scena è raccontata con crudo realismo ma anche con un momento di struggente poesia quando Seydou in preda ad allucinazioni causate da sete intensa sogna di tornare indietro a prendere quella donna che è stata abbandonata nel deserto a morire di sete e di stanchezza, e tenendola per mano camminano insieme con lei che fluttua nell’aria leggera come una piuma. Il sogno si sgretolerà per far posto alla violenza dei poliziotti libici che rubano tutti i soldi ai migranti sopravvissuti alla lunga marcia della morte attraverso il deserto, e li deportano in centri di detenzione, veri e propri lager sparsi su tutto il territorio libico sotto il loro controllo. I due ragazzi vengono brutalmente separati dai predoni libici perché Moussa ha commesso ” l’errore”, consigliato da un ambulante conosciuto a Dakar, di nascondere i soldi nel sedere, perché ritenuto il “solo posto sicuro” per evitare che i predoni li trovassero. Ma quando questi lo scoprono, per punire Moussa, lo deportano in uno speciale centro di detenzione dove ci sono i torturatori più sadici. Seydou, rimasto solo e in preda alla disperazione, viene deportato in un lager dove ci sono solo migranti senegalesi e ghanesi. A ciascuno di loro viene intimato dai carcerieri libici di telefonare ai propri familiari per chiedere di pagare un riscatto di 800 euro in cambio della libertà. I migranti che non si adeguano e rifiutano di telefonare vengono torturati senza pietà fino alla morte. Seydou essendo tra questi viene sottoposto per giorni interi a un terribile trattamento disumano. Il volto con l’occhio sinistro tumefatto per le torture subite, avvilito e più moribondo che vivo, Seydou giace per terra in un angolo di un grande stanzone insieme a decine e decine di migranti tutti ammassati. Il pensiero va alla madre lontana che non sa neppure dove lui si trova . Seydou si immagina che un angelo con la pelle nera vada da sua madre, e mentre dorme le sussurra nell’orecchio che suo figlio è vivo, sta bene, ed è arrivato in Europa. Questo toccante momento favolistico sembra come volere “profetizzare” per Seydou un’ insperata salvezza. Quando tutto appare perduto, e il ragazzo aspetta la morte come liberazione dalle sofferenze patite, si sente una voce urlare:« Ci sono muratori qui?» Un uomo alto e con corporatura robusta di origine ghanese alza la mano destra, mentre con la mano sinistra afferra il braccio di Seydou e lo spinge più in alto possibile. Uno dei grandi capi della mafia libica è venuto al lager per comprare degli schiavi da utilizzare come manodopera per la costruzione della sua faraonica villa. « Lui lo prendo, ma il ragazzo è messo troppo male» dice allo schiavista libico. Ma prontamente il ghanese gli risponde:« Noi lavoriamo solo in coppia» . Allora lo schiavista propone al capomafia uno sconto sul prezzo se decide di comprare entrambi. “Affare fatto”, e così il muratore ghanese e Seydou finiscono a lavorare come schiavi nell’immensa tenuta del più potente boss di tutta la Tripolitania. A mio parere questa è la scena chiave, quella che fa importante questo film, forse il primo che racconta questa storia dal punto di vista del “fattore umano”. Ci spinge a riflettere che anche di fronte alla crudeltà più efferata e a quella “banalità del male” per cui esseri umani normali riescano a rendersi attori, complici e responsabili di crimini spaventosi , esistono i giusti, persone che non perdono la propria umanità e difendono la dignità umana. Il muratore ghanese è nel film uno di questi giusti, poteva pensare come tanti egoisticamente di salvare la pelle e invece ha rischiato la vita per salvare da una morte certa un ragazzo senegalese che non aveva mai conosciuto né visto prima di allora perché chi salva una vita, salva il mondo intero. Seydou diventa per il ghanese “un figlio d’anima” come lo avrebbe denominato la scrittrice Michela Murgia, si prende cura del ragazzo, e con pazienza gli insegna il mestiere di muratore. Insieme realizzano nella villa faraonica una fontana talmente bella che il capomafia decide di lasciarli liberi di andarsene.
I due amici arrivano a Tripoli dove le loro vite si separano. E’ un addio commovente perché entrambi sanno che non si rivedranno mai più . Il ghanese è diretto in Francia dove spera di ricongiungersi alla moglie e ai figli, mentre Seydou che ha trovato lavoro come muratore in un cantiere edile non intende partire senza prima aver ritrovato suo cugino Moussa. Non ha mai perso la speranza che sia ancora vivo, ed è convinto che prima o poi anche lui arriverà a Tripoli. Un giorno, mentre sta lavorando nel cantiere edile , viene informato che nella comunità senelgalese è arrivato un nuovo ragazzo che potrebbe essere suo cugino. Senza pensarci troppo Seydou scappa via dal cantiere e si fionda sul posto dove hanno alloggiato il nuovo arrivato. Non può credere ai suoi occhi , in una piccola stanza adibita a dormitorio c’è una brandina su cui è disteso Moussa. Finalmente i due protagonisti della storia si sono ritrovati, ma la loro felicità svanisce appena Seydou nota che Moussa ha una brutta ferita a una gamba, provocata quando è fuggito dal lager libico, dal proiettile sparato con una pistola da un poliziotto che voleva gambizzarlo per impedirgli di fuggire. Seydou sa bene che nell’ospedale di Tripoli non curano i senegalesi, e gli antibiotici che è riuscito a comprare al mercato nero possono solo ralletare il diffondersi dell’infezione nella gamba di Moussa che rischia seriamente di morire. I due ragazzi allora decidono che è necessario affrontare la pericolosissima traversata in mare per raggiungere la ” fortezza Europa” dove Moussa può essere ricoverato in un ospedale e ricevere le cure adeguate. Così quando Seydou viene a sapere da un operaio bengalese che un barcone carico di migranti sta per partire da Tripoli diretto in Italia, contatta subito il trafficante che organizza la tratta, ma il denaro di cui dispone non basta a pagare neanche la sua traversata. Tuttavia il trafficante è disposto a farli partire a quella somma di denaro, ma solo se Seydou accetta di guidare il barcone per tutta la durata del viaggio. Seydou che non ha mai guidato una barca e non sa neppure nuotare non vorrebbe assumersi la responsabilità della vita di tutte quelle persone di cui molte sono donne con bambini piccoli. Ma non ha altra scelta, e deve accettare di essere il capitano del barcone.Quando arriva il momento della partenza, il trafficante resta a terra, ma prima spiega brevemente a Seydou come prendere in mano il timone e usare la bussola. Poi gli consegna un telefono portatile per chiamare i soccorsi in caso di emergenza. Il capitano Seydou prende la gestione del barcone con autorevolezza, accanto a lui c’è anche l’inseparabile Moussa.
Il barcone avanza lentamente e non è facile tenere la rotta verso Nord, ma durante la traversata sembra che nulla vada storto. E invece capita all’improvviso che una donna incinta si sente male perchè sta per partorire, e contemporaneamente Seydou fa un’agghiacciante scoperta: nella stiva dell’imbarcazione, dove si trova il motore, sono ammassati altri migranti ustionati dalla benzina che dopo parecchie ore di navigazione rischiano di morire asfissiati . Seydou non può fare altro che fermare il barcone e utilizzare il telefono cellulare per chiamare i soccorsi. La guardia costiera italiana risponde che non può intervenire perché il barcone si trova nell’area di ricerca e soccorso maltese, ma, a sua volta, La Valletta declina ogni responsabilità rispondendo che, nonostante l’imbarcazione si trova in acque maltesi, la competenza ricade su Roma. La speranza lascia il posto alla disperazione , e Seydou capisce che nessuno verrà a salvarli e quindi è meglio provare a farlo da soli. Il capitano ragazzino ha capito che non può fermarsi e che deve portare in salvo tutte quelle persone che hanno messo la loro vita nelle sue mani. Il barcone riprende la sua rotta di navigazione, il capitano Seydou scruta l’orizzonte alla ricerca inquieta di una terra “promessa” e di un approdo a cui ancorare tutte le partenze di tanti disperati in cerca di un futuro migliore. E’ notte fonda, quando all’ improvviso una luce che sembra troppo strana per essere l’identità notturna di una città, rifulge nelle tenebre. Il capitano ragazzino con l’approvazione di Moussa dirige il barcone verso quelle luci di speranza e le raggiunge. Ma c’è una grande disillusione perché le luci non si trovano sulla terraferma, sono invece quelle di una imponente struttura che Seydou, Moussa e i migranti a bordo dell’imbarcazione non hanno mai visto prima. E’ una piattaforma petrolifera simbolo orribile del capitalismo più devastante e predatorio. Tuttavia la presenza di questo ecomostro sta anche a significare che l’Italia non è più tanto lontana. Al sopraggiungere dell’alba, finalmente il barcone giunge in prossimità delle coste siciliane. Un elicottero della guardia costiera italiana si è subito alzato in volo per intercettare l’imbarcazione, ma per i migranti a bordo è come se non ci fosse, presi come sono dalla grande felicità per essere arrivati sani e salvi a destinazione. Seydou è in piedi sulla prua del barcone, lo sguardo rivolto verso i piloti dell’elicottero, lancia un urlo liberatorio : Io capitano!, Io capitano! Io capitano!… Almeno per questa volta Moussa, Seydou e il suo “carico” di dannati della Terra si sono salvati dai demoni che volevano annientarli. In conclusione, dopo avere visto il film, ho ripensato a una frase scritta su un muro del campo di sterminio di Auschwitz: « Se Dio esiste, dovrà chiedermi scusa ». Sempre se Dio esiste, dovrà anche spiegarci quale particolare merito hanno “i salvati” per essere nati nel ricco Occidente e per avere una vita agiata, e invece di quale grave peccato sono colpevoli “i sommersi” per essere nati nei Paesi più poveri del mondo e per essere destinati a una vita fatta di privazioni e discriminazioni di ogni tipo. Se Dio esista o meno non farebbe alcuna differenza , perché mai ci risponderà. Sicuramente una risposta convincente e ben ancorata alla realtà c’è l’ha data il grande Karl Marx quando affermò : « che gli uomini non nascono uguali ma sono espressione dei rapporti di produzione ».
Poi, ai governanti delle democrazie dei Paesi dell’Occidente e ai burocrati che siedono nel parlamento di Bruxelles vorrei chiedere per quale ingiustificabile motivo un qualsiasi individuo che sia cittadino di uno Stato membro dell’UE anche se non ha un lavoro, può andare a Parigi, Roma, Berlino, viaggiando comodamente in treno, autobus, in aereo o anche con la sua automobile, mentre un africano, un bengalese, una persona che proviene da uno dei tanti sud del mondo per venire in Europa deve pagare fino a diecimila euro a delle spietate organizzazioni criminali, affrontando un viaggio infernale di mesi o addirittura di anni prima di riuscire a lasciare la Libia. Io una risposta me la sono data. Probabilmente perché dal centrodestra al centrosinistra, passando per i governi di coalizione e di destra, chi è al potere negli Stati membri dell’Ue confonde la democrazia con l’arricchimento di pochi a scapito della maggioranza.

Così, i migranti diventano una merce come un’altra da vendere e scambiare come forma di ricatto verso l’ Europa da parte di autocrati e dittatori, e soprattutto per i governi di destra sono un “carico residuale” di cui sbarazzarsi il prima possibile. E allora, io che rivendico con orgoglio di essere un “terrone” del sud e uno “sporco” comunista dico solo: « Cara bandiera rossa, ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli » .

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